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dall'inviato TIZIANO CARMELLINI DUISBURG — Un puffetto biondo, alto poco più d'un ...

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Il tifo è tutto dalla sua parte, i tremila «italiani» assiepati sugli spalti improvvisati del Duisburg Sport Centrum si alzano in piedi nemmeno fosse il novantesimo della finale di Berlino con Grosso involato sulla fascia. L'omone si muove goffo, altro che Cannavaro o Thuram, ma le sue gambe sono troppo più lunghe della piccola peste che cerca col cuore in gola di arrivare all'obiettivo di una vita di bimbo: vedere Del Piero da un metro, toccarlo, spalmarglisi addosso. Il placcaggio, morbido, arriva implacabile quando il piccoletto è ormai al centro del campo e ha il suo mito lì a pochi metri. Il pubblico rumoreggia, fischia il «fallaccio» da dietro del tedesco che non s'è rassegnato o forse non ha ancora smaltito la sberla di Dortmund. Del Piero segue la scena ridendo un po' come tutti gli altri lì attorno, poi fa un fischio alla guardia tedesca: fermo là, molla l'azzurrino. S'avvicina e trasforma il sogno in realtà, si sfila un polsino, lo porge al «nanetto» che ormai è in estasi come la folla che preme là attorno. L'Italia che vive a Duisburg è in delirio, la microcittà tedesca si blocca per l'ultima volta a «porte aperte» dell'Italia. Una coda interminabile, mai vista per un paesone della Ruhr. Caos, schiamazzi, traffico in tilt. Trombe, trombette, bandiere tricolori e automobili trasvestite da carretti siciliani. C'è l'Italia, quella di Lippi che piace alla gente, fa sorridere e vince: e chi vive qui di vittorie nella vita ne ha realizzate ben poche soprattutto rispetto ai padroni di casa. Già, perché «der italianen» qui sono ospiti e non esattamente di quelli ai quali si stende un tappeto rosso. Intanto Lippi nasconde la squadra, quella vera, che dopo il riscaldamento va a provare nell'altro campo: quello nascosto. Tattica, pretattica e di tutto un po' e nel mezzo c'è anche un bella fetta di scaramanzia: perché la finale gli azzurri la vogliono vincere. Sul campo «aperto» a stampa e pubblico restano le riserve, ma alla gente va bene lo stesso. Loro di questa boccata d'Italia dovranno far tesoro per i prossimi anni. Chi vive qui, il tricolore ce l'ha nel cuore e il successo contro i tedeschi a Dortmund ha significato un cambiamento epocale per molti di loro. Il riscatto, quello vero, altro che novanta minuti appresso al pallone. Già, il pallone, quello che rotola oggi sul campo, è strano, diverso. Ha sempre la stessa faccia ma lo vedi che ha un certo riflesso d'oro. Già, è il nuovo Team Geist versione «finale» arrivato direttamente da Berlino dove tra poco più di due giorni potrà regalarci una gioia infinita, o un dolore altrettanto profondo. Il calcio è un gioco, vero, ma qui più che altrove è anche un modo per sentirsi ancora un po' a casa. La squadra corre sul campo, la gente fa festa sugli spalti e Del Piero stavolta dà spettacolo, si sente forse titolare come non è mai stato in questo Mondiale. La gente apprezza e risponde con altrettante standing ovation alle sette reti realizzate dallo juventino nella partitella finale. Non siamo all'Olympiastadion, ma il calore è lo stesso e in molti vorrebbero non finisse mai. La Francia non c'è, quella è altra roba e forse Del Piero la vedrà solo a tratti, ma il suo Mondiale è anche questo: sacrificio, silenzio. Finisce come meglio non poteva per chi ha fatto magari cinquanta chilometri solo per star lì con gli occhi sgranati e riempirsi i polmoni di Italia. Sul campo restano in tre: Zaccardo sulla fascia destra che mette in mezzo palloni e la coppia Oddo-Del Piero al centro dell'area a fare le foche. Mezze girate, rovesciate e botte al volo da manuale in un attimo di follia nel quale tutto ti riesce bene. Un paio di gol da libro del calcio, per il tripudio generale... poi tutti a casa, la festa è finita. Il tempo dei giochi è scaduto: d'ora in avanti si farà solo sul serio. A Berlino tra quarantotto ore ci sarà tutta un'altra aria. L'italia? Ci sarà. La festa? Speriamo.

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