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Le ragioni di un fallimento

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Tuttavia, pur ammettendo come proprio dalla più elementare delle contabilità sia spesso possibile risalire ad una chiave di lettura affidabile, utile per assegnare il giusto significato all'esito di un qualsiasi consuntivo agonistico, individuale o collettivo, Helsinki — il paradosso è solo apparente — non rientra in tale schema interpretativo. Sintetizziamo. Ivano Brugnetti, campione mondiale nel 1999 e vincitore olimpico nella scorsa stagione, a metà della sua gara subisce una disgraziata crisi di stomaco, si ferma, si ritira. Giuseppe Gibilisco, campione mondiale in carica, medaglia di bronzo ad Atene, vive un momento difficile su una pedana che avrebbe potuto recargli fortuna e resta bloccato al quinto posto. Stefano Baldini, la pelle d'ognuno brucia ancora a ventiquattro ore dalla vicenda, entra in crisi a due terzi di una gara apparsa fin al momento esemplare, tenta di reagire ai crampi sopravvenuti alla crisi, realizza l'inanità del tentativo, si ferma definitivamente ai bordi del tracciato. Seguiti da veterani della scienza tecnica — tra il meglio che esista nel mondo conosciuto, dunque internazionalmente apprezzati ed invidiati, Sandro Damilano, Vitalj Petrov e Luciano Gigliotti — assecondati nei sodalizi di appartenenza e nei corridoi federali dal massimo delle provvidenze e dei privilegi consentiti in una disciplina come l'atletica, Brugnetti, Gibilisco e Baldini erano i nomi su cui tutti, semplici appassionati, tecnici e dirigenti federali, notabili del Foro Italico, osservatori di varia cultura ed esperienze, contavano per una conferma, per nulla velleitaria, dei risultati raggiunti nella scorsa stagione ai Giochi olimpici. Tutto ciò non s'è verificato. L'altare, come accade con infallibile cadenza in situazioni analoghe, si è trasformato in polvere. A questo punto, la domanda: è questo il problema dell'atletica italiana, ritrovarsi cioè in un medagliere dietro Ghana e Bahrain, Estonia e Qatar, Trinidad e Tanzania? No, non è questo il problema dell'atletica italiana. Lo dimostra proprio il confronto con quanto accadde lo scorso anno, quando non furono sufficienti tre luminose prestazioni per impedire che più d'uno, magari con scarsa tempestività ed eleganza, sottolineasse come quelle tre medaglie fossero assediate da un deserto, essendo null'altro che la splendida copertina di una lettura vuota di contenuti. Helsinki ha in gran parte confermato quel deserto. Rare le prestazioni personali migliorate, tanto da far ritenere in controtendenza eccezionali le prove di Benedetta Ceccarelli, di Andrea Barberi e di Zahra Bani. Al contrario, una caduta verticale di prestazioni. Quasi inesistenti i momenti in cui severità d'analisi, recupero d'orgoglio, rabbia, abbiano nei commenti a caldo prevalso sul più scontato degli alibi (il vento, il freddo, l'età: ma Berruti e Mennea vincevano a venti anni!) e sul più sbrigativo e inaccettabile dei fatalismi. In conclusione, con una sostanziale dimostrazione d'immaturità. E' su tali elementi che i dirigenti d'atletica, ove ne abbiano capacità, e con essi i vertici del Comitato Olimpico,devono riflettere.

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