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Arrivederci Baggio

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Superati i timori per l'affaticamento muscolare avvertito domenica, il giocatore italiano più amato dalla gente del calcio (avversari inclusi, allenatori esclusi) riprenderà quella maglia che un tempo era sua ed è da sempre il simbolo del talento: la numero 10. «E questo per me è già moltissimo», dice lui in una malriuscita versione dialettica delle sue celebri finte. Perché in realtà Baggio sogna il ritorno ad una nazionale che gioca per vincere in una competizione da lui mai percorsa, l'europeo. Non vuole l'Olimpiade, «discorso differente, con giocatori insieme da tanto tempo, e quindi chiuso». Vuole proprio l'europeo in Portogallo. Si aggrappa alla banalità del «mai dire mai» regalato dal ct Trapattoni nell'inconsueta conferenza stampa a due voci per far volare la speranza. E intanto fa volare ancora il pallone, che nella partitella di allenamento finisce sotto l'incrocio dei pali lasciando di sasso Peruzzi. Accendendo così l'entusiasmo del pubblico in tribuna: un'ovazione, come se avessero segnato insieme Samp e Genoa. Semplicemente invece ha fatto gol Baggio, il giocatore ecumenico, quello buono per tutte le stagioni (ed i commissari tecnici, a pensarci bene: lo hanno utilizzato Vicini, Sacchi, Maldini, Zoff ed ora Trapattoni). Certo, considerata l'età, 37 anni, e le condizioni fisiche, tutt'altro che buone, è già moltissimo questa passerella voluta dalla federazione e subita ancorchè ostentata dal ct Trapattoni. E però a lui non basta. Sebbene si affanni a cercare di far credere il contrario, tutto in lui dichiara la sua voglia di calcio vero. Al punto che chiude una conferenza stampa da gioco delle parti, con il ct che dice e non dice e lui a cercare il contropiede, con un «Il mio addio? È quasi definitivo». Lascia aperte le porte, anche se prima ci sono state tante frasi apparentemente dedicate a chiuderle. Cappello nero con visiera all'indietro che ricorda una bandana, orecchino al lobo sinistro e pizzetto: si è presentato con un look da pirata per la rituale stretta di mano a quel ct al quale potrebbe dare più fastidio che aiuto. Con il suo seguito popolare, con la sua capacità di incarnare un calcio semplice e prezioso, perciò comprensibile a tutti: dribbling e tiro, stop e finta. E chi se ne importa se gli altri fanno i raddoppi di marcatura e vanno a cento all'ora. Ha pronunciato parole dolci. «Accetterei la panchina certo, l'avrei fatto anche in Giappone e Corea, ed anche nel 1998 il mio desiderio era fare parte del gruppo e tutto fu chiaro. Trasformare questa partita in un arrivederci e non in un addio? Non lo so. Da professionista poi cercherò di dare il massimo, come ho sempre fatto, per ottenere il massimo. Credetemi, per me questo è già molto, poi non so...». Le domande lo hanno inseguito, per lui sono arrivati tanti giornalisti dall'estero: una situazione che è metafora della sua carriera. Si è mai sentito personaggio scomodo per i suoi compagni? «Francamente no, perlomeno non nei rapporti con gli altri giocatori delle mie squadre. Magari però l'affetto della gente, che per me è la cosa più bella della mia esperienza nel calcio, a qualcuno non andava bene». Ha parlato anche di Totti («con il quale avrei giocato volentieri», e di Raul «che merita ex aequo con il romanista il Pallone d'Oro»), prima di chiudere con l'ultima rovesciata: «Ringrazio chi ha parlato della possibilità che io vada l'anno prossimo in una Fiorentina in serie A. Ma l' ho detto, il mio addio è... quasi definitivo». Stasera però ci sarà. Per un amarcord che sa di ritorno al futuro. Sempre colorato d'azzurro. Quello della nazionale.

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