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di SIMONE PIERETTI GENOVA — Mancini e Genova: è la storia di un amore infinito.

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Mancini ha sofferto più del lecito la tensione della vigilia: è salito sul pullman, ha osservato la sua città vestita ancora a festa: le bandiere della Sampdoria ben esposte sui balconi per salutare nel migliore dei modi la serie A che torna, ma soprattutto per rendere omaggio al figlio blucerchiato che il popolo doriano aveva deciso di adottare nell'estate del 1982. Mancini arrivò a Genova bambino, ma ventuno anni dopo ha vissuto le stesse emozioni di allora. Lo stesso groppo in gola per affrontare, da avversario, i vecchi amici di un tempo; un orologio che non mastica mai i secondi che inesorabilmente lenti scandiscono le ore che precedono la partita. Mancio avrebbe preferito giocare, scattare, correre, prendersela con i compagni ed inveire. Avrebbe preferito scaricare tutta la sua tensione in novanta minuti, correndo in quello stadio senza pensare. La fatica avrebbe anestetizato i suoi pensieri senza farlo riflettere nemmeno per un istante. Invece Mancio è rimasto immobile: nello spogliatoio affollato di mille persone, è rimasto terribilmente solo. Solo con i suoi pensieri, con i suoi ricordi. Essere nello spogliatoio sbagliato lo ha reso ancor più teso, ancor più fragile. Mancio avrebbe voluto togliersi la giacca e iniziare il riscaldamento: ha soltanto potuto fissare con lo sguardo le pareti di Marassi che profumavano ancora di scudetto. Poi l'ingresso in campo, la partita, i tre punti in palio: l'allenatore della Lazio ha alzato la testa, si è girato verso la gradinata sud e con un gesto della mano ha salutato i suoi amici, i suoi tifosi di sempre. Cinque minuti di applausi ininterrotti, poi il lungo percorso verso la Tribuna centrale: con passo lento si è avvicinato alla sua panchina. Il tragitto, sconosciuto al Mancini giocatore, l'ha portato di fronte a cinquanta fotografi impazziti che hanno battagliato pur di trovare lo scatto migliore. La mitraglia di flash, poi il calcio d'inizio. Mancini ha giocato contro se stesso una partita del tutto personale: restare concentrato su ciò che accadeva in campo era una forza uguale e contraria ai ricordi che lo attiravano nel mondo blucerchiato. Ogni metro di campo, ogni coro, ogni voce cercavano di attirarlo come il canto delle Sirene. Il sogno è andato avanti fino all'ottavo minuto, quando Inzaghi ha rotto l'equilibrio della partita realizzando il gol del vantaggio. Per un istante Mancio ha rivisto se stesso sotto la gradinata sud, aggrappato ai cartelloni pubblicitari, nel tentativo di abbraciare qualcuno: Bobby-gol non ha potuto non pensare ad una delle notti più belle della sua vita, quando, con un gol ai greci del Panathinaikos, regalò la finale della coppa dei campioni alla sua Samp. Era la notte dei sogni. E Mancini ha continuato a sognare, vedendo una squadra fatta a sua immagine e somiglianza, capace di vincere e di soffrire. Ha accennato un saluto lasciando il suo stadio, rispondendo al leggero applauso che lo accompagnava nello spogliatoio. Felice e scontento, dispiaciuto e soddisfatto Mancio è arrivato fino al tunnel. Poi di colpo si è voltato verso la tribuna centrale. Un uomo lo salutava da lontano con un grandissimo sorriso sulle labbra. Era soddisfatto: di solito quando Mancini non giocava non si presentava neppure allo stadio perché diceva di non divertirsi.... in fondo al cuore del signor Paolo c'è sempre stato un po' di biancoceleste, e Mancio grazie a quel sorriso può continuare a sognare.

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