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Non tornerei mai in tv, la seconda vita di Marco Predolin

Giovanni Terzi
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«Tu sei slavo» gridavano con un po’ di disprezzo i compagni di scuola al piccolo Marco. Essere chiamati «slavi» non era una gran bella cosa negli anni sessanta provenendo da un territorio, quello della Venezia Giulia, che è stato per anni oggetto di battaglie di appartenenza. La storia dell’Istria e della Dalmazia è una storia che parla di Roma e di Venezia. Fu Giulio Cesare a fondare, dopo Trieste (Tergeste), le colonie di Pola (Pietas Julia) e Parenzo (Julia Parentium); fu Augusto a portare i confini dell’Istria fino al Quarnaro e a creare le Decima Regio Venetia et Histria, che si espandevano dall’Oglio all’Arsa e dalle Alpi al Po. Trieste fu collegata a Pola attraverso la via Flavia che raggiungeva poi Fiume (Tarsatica). Un’iscrizione d’epoca augustea reperita nei pressi di Fiume dice «Haec est Italia Diis sacra». Roma lasciò splendide testimonianze nel colle Capitolino e nel teatro di Trieste, nell’Arena di Pola, nell’arco di Fiume, nel Foro di Zara e nel palazzo di Diocleziano di Spalato. Ma quel sogno iniziale di avere Istria e Dalmazia appartenenti all’Italia e alla Venezia Giulia durò finché il diktat di pace del 10 febbraio 1947, imposto al termine della seconda guerra mondiale, dalle potenze vincitrici, strappò l’Istria, Fiume e Zara e le isole all’Italia, consegnandole alla Jugoslavia di Tito. Marco Predolin è stato uno dei personaggi televisivi più celebri e amati negli anni ottanta e novanta ma la sua storia familiare parte da quella terra che fu oggetto di sanguinose battaglie e, soprattutto, fu teatro di uno dei crimini più violenti della storia dell’umanità: le foibe. Soltanto nel nuovo secolo e con la legge del 30 marzo 2004 numero 92, venne istituito il 10 febbraio «il Giorno del Ricordo». L’istituzione della giornate delle vittime delle foibe, fino a quel momento volutamente dimenticato, vuole rinnovare la memoria «della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». O come ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella «per troppo tempo le sofferenze patite dagli italiani giuliano-dalmati con la tragedia delle foibe e dell’esodo hanno costituito una pagina strappata nel libro della nostra storia». In questo clima e con questa tragedia sulla pelle Marco Predolin è cresciuto e quel «tu sei slavo era proprio rivolto a lui». «La cultura, vista da sinistra» racconta Marco «è un crogiolo di divieti e tabù. Ci sono storie e storie. Quelle che piacciono all’intellighenzia e quelle che, invece, mandano in frantumi i suoi totem. Ecco, queste ultime, a differenza delle prime, non sono bene accette nei consessi progressisti e c’è persino chi vorrebbe proibirne la divulgazione».
È questa la sua sensibilità rispetto alla questione «Giuliana-dalmata»?
«Mio padre era un ufficiale della Repubblica Sociale e mia mamma una insegnante.
Eravamo una famiglia borghese che stava economicamente bene ed aveva tutto.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale siamo stati epurati ed abbiamo, invece, perso tutto.
La sinistra non ama parlare dei suoi errori; la vicenda delle foibe ha messo più di vent’anni a venire fuori così come un’altra triste vicenda…»
Quale?
«Quella dell’uccisione di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci che vennero freddati entrambi, all’interno della sezione del Msi di Padova, una mattina di giugno del 1974, da un commando di brigatisti rossi. Devo anche dirti, ad onor del vero, che per me il 25 aprile non riesco a viverlo come una festa nazionale».
Perché?
«Quel giorno i miei genitori vennero sbattuti in una fossa comune perché dovevano essere fucilati ma si salvarono».
Dove è nata la tua vena artistica?
«Mio padre, per diletto suonava il piano, io appena potetti andai sulle navi da crociera per suonare e cantare.
Credo sia stata una questione di indole, innata, anche se mi sono adattato sempre a tutto pur di guadagnare e portare a casa qualche soldo per vivere».
Tipo, che lavoro hai fatto?
«Quando vivevo in Canada ho fatto l’uomo delle pulizie. Per me importante era guadagnare ed essere autonomo».
Fino a che hai avuto successo e sei diventato uno dei conduttori più popolari del nostro paese…
«Ho fatto tanta gavetta e nulla è arrivato a caso. Ho iniziato a lavorare in una radio a Sestri Levante, poi a Radio Babboleo per arrivare a Radio Montecarlo, dove un signore che si chiamava Noel Coutisson mi insegnò come andare in onda, per poi approdare a Rete 4 a "M’ama non m’ama" il primo gioco dating della televisione italiana».
Che esperienza è stata?
«Meravigliosa quel gioco, ideato da Paolo Limiti e Steve Carlin, era educato ed elegante ed in ogni puntata, due "cacciatori" si contendevano quattro "prede" rispondendo ad una serie di domande le cui risposte erano a scelta tra il "vero" e il "falso"; nel gioco finale i vincitori potevano aggiudicarsi un premio rispondendo a domande di cultura generale sui petali dell'enorme margherita ricostruita in studio. Per me fu proprio Steve Carlin che mi insegnò come condurre. Per avere successo dovetti fare prima la gavetta e poi una vera e propria scuola».
Ed oggi come è la televisione?
«La televisione è la metafora della vita. Oggi, in Italia, la mediocrità paga».
Addirittura?
«Chi gestisce il potere non ha interesse a dare spazio a chi è un talento. Chi gestisce i fili promuove i mediocri e li butta nell’arena senza che questi siano minimamente preparati».
Ce l’hai con qualcuno?
«Assolutamente no, i responsabili non sono coloro che “improvvisamente” conducono ma a i loro capi che li gestiscono e promuovono senza titolo. Se ci pensi oggi i conduttori si fanno sul campo senza alcuna scuola e gavetta: a volte può andare bene e molte altre vanno male».
Visto che non mi vuoi dire chi va male mi citi un esempio positivo?
«Maria De Filippi quando iniziò era impacciata e arrossiva ogni volta. Oggi è una delle regine della televisione ed ha fatto esperienza attraverso la conduzione non attraverso una scuola ed una gavetta. Possiamo dire che ha fatto la gavetta in diretta. Voglio farti un esempio…».
Fammelo Marco…
«Oggi i Corrado, i Mike Buongiorno o gli Enzo Tortora, non potrebbero esistere; sarebbero troppo bravi per chi gestisce il potere».
Tu hai lasciato il video ormai da anni. Che ruolo pensi potresti avere nella televisione di oggi?
«Nessuno. Forse il giurato in “Tu si que vales”. In questa televisione, parlo della generalista, non credo di poter avere alcun ruolo e sarebbe necessario tornare ad un senso profondo di televisione che è intrattenimento ma dovrebbe avere anche un senso educativo e formativo».
Per questo hai scelto una nuova vita aprendo un locale a Porto Rotondo in Sardegna?
«L’ho fatto dodici anni fa e devo dire che sono molto felice. Con mia moglie Laura gestiamo il nostro ristorante "Pirati Italiani", sulla passeggiata sul porto, in modo familiare accogliendo i nostri ospiti come fossero a casa nostra; io mi diverto, intrattengo cantando e stando sempre nel locale e, credimi, la cosa mi dà davvero tanta soddisfazione».
Torneresti in televisione?
«Non ci penso, per me servire e vedere la felicità di chi viene al mio locale, vale più dei risultati dell’Auditel».
 

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