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«Così si vive in carcere nei giorni della paura»

La planimetria della cella

«Distanziamento sociale impossibile con 4 in una cella di 20 mq scarsi Bagno e cucina nello stesso stanzino. E una mascherina mai cambiata»

Stefano Liburdi
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In quattro in una cella di 20mq scarsi, con i letti saldati a terra distanti tra loro appena 50 cm. Uno stanzino che è bagno e cucina insieme e uno spazio largo 20 metri e lungo 15 dove passeggiano anche più di 120 persone nello stesso momento. A descrivere la condizione in cui vivono i reclusi è Pasquale De Masi tornato in libertà il 4 aprile scorso dopo otto anni di detenzione, gli ultimi dei quali scontati a Rebibbia. “Oggi più che mai i detenuti patiscono la sofferenza e l'irrequietezza della solitudine. E' un'umanità stanca quella delle galere. Ed io, appena rimesso in libertà, non posso dimenticarmi di loro, degli uomini ombra”. Da fine febbraio i cronici problemi che da sempre tormentano i penitenziari italiani, primo fra tutti il sovraffollamento, sono diventati ancora più minacciosi con l'arrivo del Covid-19 che ha varcato il cancello metallico delle prigioni. Numerosi i contagi già avvenuti tra chi vive dentro quelle mura o lì presta servizio, come gli agenti di polizia penitenziaria e gli operatori sanitari. La situazione rischia però di degenerare in un luogo dove si convive ventiquattro ore al giorno a stretto contatto con i compagni di cella. Le misure adottate dal governo non hanno risolto il problema: dei braccialetti elettronici promessi, che avrebbero consentito un alleggerimento della popolazione carceraria, ne sono arrivati solo una piccolissima parte e a troppi pochi detenuti è stata concessa una misura alternativa della pena. Il carcere resta così una bomba che può esplodere da un momento all'altro.   Pasquale, a Rebibbia quando avete cominciato a capire quello che stava avvenendo fuori? “All'inizio non riuscivamo bene a comprendere ciò che stava succedendo, poi quando i morti sono diventati 7/800 al giorno, ci siamo guardati negli occhi cercando risposte che non potevamo darci”.   E chi aveva contatti con l'esterno, come ha reagito alla situazione? “Dallo sguardo di agenti e personale si percepiva la preoccupazione, anche se tutti, compresa l'amministrazione, cercavano di minimizzare per non far salire la tensione”.   Poi sono stati sospesi i colloqui, interrotte le attività e le tensioni sono salite fino alla rivolta di alcuni detenuti. “L'amministrazione è stata abbastanza permissiva, concedendo più telefonate e videochiamate. Le proteste però non sono scoppiate per la mancanza di colloqui, come è stato scritto. E' stata la paura a provocarla. Non ho condiviso questa rivolta a cui non ho preso parte, ma non mi stupisco che si possa avere una tale reazione, quando sembra di andare incontro a morte certa. Tra i reclusi c'è gente fiaccata dalla detenzione, ci sono anche tanti anziani e malati”.   Tornata la calma è cambiato qualcosa? “La rivolta è rientrata grazie alla polizia penitenziaria che è riuscita a gestire la situazione con il dialogo. I responsabili sono stati trasferiti in altri penitenziari senza essere sottoposti al tampone. A noi è stato concesso di rimanere qualche ora in più nel corridoio”.   Che misure sono state adottate per combattere il pericolo dei contagi? “Ci è stata consegnata una mascherina, una, di tipo chirurgico, senza mai cambiarla. Il Lysoform con cui disinfettavamo le superfici è sparito, forse perché non si trovava più nei negozi. Gli agenti avevano mascherine e guanti ma, ci hanno confidato, comprati a loro spese. Intanto sono cominciate ad arrivare le notizie di casi positivi fra detenuti e personale”.   Praticavate il “distanziamento sociale”? “Impossibile. Nelle nostre celle, nel reparto di Alta Sicurezza, eravamo in 4 in meno di venti metri quadri. I letti, saldati a terra a distanza di solo mezzo metro l'uno dall'altro. In regime di carcerazione ordinaria, nelle celle ci sono anche sei persone. Poi c'è uno spazio strettissimo di 5 metri con la tazza e a 50 centimetri di distanza un lavandino 30 cm x 20 tipo “caravan” con il quale provvediamo all'igiene personale e al lavaggio degli alimenti e delle stoviglie. A poca distanza sono posizionati un tavolo e un fornello tipo campeggio. L'area passeggio si fa in un cortiletto dove a volte eravamo in 122. Lo stesso nel campo sportivo e negli spazi adibiti a palestra di 35 mq, ci allenavamo in 40”.   La giornata tipo come è scandita? “Sveglia alle 7,30 con la conta. Un'ora dopo c'è l'apertura delle celle e chi vuole va a passeggiare, a fare la doccia o in palestra o chi come me, che mi sto laureando in giurisprudenza, nelle aule a studiare. Questo fino alle 10, poi si ritorna dentro si mangia. Alle 13 si riscende fino alle 14.30. La cena è alle 17.30 e si può fare la cosiddetta “ora di socialità” fino alle 19, ossia puoi andare a cenare in un'altra cella della sezione. Poi si rientra. Insomma, fuori da quel buco, si resta quattro ore scarse”.   A inizio aprile è finalmente terminata la tua pena. “Sono uscito da Rebibbia senza essere sottoposto a tampone, ma mi è stata fornita una mascherina di carta”.   Quando è scoppiata l'emergenza sanitaria, a te mancavano poche settimane da scontare, perché non ti è stato concesso di concludere la detenzione ai domiciliari? “Avevo presentato un'istanza per la concessione di una misura alternativa, visto che ero prossimo alla scarcerazione. Il 14 aprile (quando Pasquale era un uomo libero già da dieci gironi ndr) hanno chiamato mia sorella per chiederle se fosse disposta ad accogliermi!”.

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