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L'urlo di Cerciello: "Siamo carabinieri!" E la bugia dei militari in incognito crolla

Valeria Di Corrado
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«Ho sentito più volte urlare il collega Cerciello: "Fermati! Siamo carabinieri"». L'interrogatorio reso da Andrea Varriale lo scorso 9 agosto, davanti ai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Nunzia D'Elia, mette fine a molti dei dubbi avanzati finora sull'operato dei due militari intervenuti la notte tra il 25 e il 26 luglio in via Pietro Cossa, a Prati. La Procura ritene attendibile la testimonianza oculare di Varriale, che ripercorre i passaggi che hanno portato all'uccisione del vice brigadiere Mario Cerciello Rega. «Insieme a Sergio Brugiatelli, utilizzando la macchina di servizio, siamo giunti in prossimità del luogo dell'appuntamento fissato dai due soggetti indicatici come estorsori. L'abbiamo posteggiata e siamo scesi. Brugiatelli è rimasto in prossimità dell'auto, mentre io e Cerciello, insieme, ci siamo recati verso il punto preciso dove era stato fissato l'incontro per la restituzione dello zainetto, che era stato indicato vicino alla banca Unicredit. (...) Sul lato sinistro, dove inizia via Pietro Cossa, davanti a una farmacia abbiamo notato due giovani in attesa (...) Erano vestiti entrambi con felpa e cappuccio alzato, nonostante la temperatura estiva. Abbiamo attraversato la strada e abbiamo approcciato i due giovani, sempre uno accanto all'altro. Ci siamo subito qualificati dicendo "Carabinieri" e mostrando entrambi il tesserino di servizio e la placca. Immediatamente i due giovani ci hanno aggredito. Ne è seguita una colluttazione. Io sono stato affrontato da quello con la felpa nera (Christian Natale Hjorth, ndr). Sono subito scivolato a terra come effetto di un corpo a corpo, finché il ragazzo non è riuscito a divincolarsi ed è scappato. Contemporaneamente l'altro giovane (Finnegan Lee Elder, ndr) aveva aggredito il collega Cerciello e, mentre io mi trovavo a terra, l'ho sentito urlare più volte: "Fermati! Siamo carabinieri". Dopodiché ho visto in rapida successione dileguarsi anche l'altro giovane, scappato nella stessa direzione di fuga del primo, e mi sono reso conto che il collega sanguinava copiosamente da un fianco, ancora in piedi ma barcollante, mentre mi diceva: "Mi ha accoltellato", per poi riversarsi al suolo. Mi sono precipitato su di lui, ho cercato di tamponare le ferite con la mia maglietta e ho immediatamente chiamato la Centrale operativa per i soccorsi che sono arrivati nell'arco di poco più di 15 minuti». A precise domande dei pm, il militare chiarisce una serie di punti «oscuri»: perché non avessero chiesto i rinforzi, come mai non si fossero accorti che Brugiatelli era coinvolto in un episodio di spaccio, perché inizialmente Varriale aveva indirizzato le ricerche verso due maghrebini e, soprattutto, perché non fossero armati. «Ribadisco che né io, né il collega, avevamo mai visto Brugiatelli, né sentito il suo nome, prima di quella sera (...) Al momento dell'intervento, il nostro intento era quello di seguire la prassi abituale: tenere un profilo basso, nel senso di simulare un controllo su strada e chiamare una macchina per accompagnare i soggetti in caserma. (...) Escludo nel modo più assoluto che la percezione che sia io che Cerciello abbiamo avuto sia stata quella di agevolare i recupero dello zaino di un soggetto coinvolto in fatti di droga. Se davvero l'avessimo saputo, probabilmente le modalità sarebbero state diverse. Dopo aver sentito la telefonata, peraltro registrata da Cerciello, mi era sembrato che chi parlava, utilizzando un italiano un po' storpiato, avesse l'accento tipico dei maghrebini. Poi in caserma ho fatto un identikit, il cui risultato è stato molto prossimo alla figura del ragazzo con il quale avevo avuto la colluttazione». «Quella sera - precisa Varriale ai magistrati - quando siamo usciti, sia io che Cerciello avevamo in dotazione le manette, ovviamente i tesserini, ma abbiamo lasciato le pistole in caserma proprio in relazione al tipo di servizio che dovevamo fare. Essendo estate e dovendo confonderci con le persone, anche di un certo tipo, il nostro abbigliamento era costituito per me da blue jeans e maglietta e per Cerciello da un paio di pantaloni modello pinocchietto e una magliettina. Portarsi dietro la pistola avrebbe significato vanificare la mimetizzazione e di conseguenza l'efficacia del servizio. Credo di aver riferito nei giorni scorsi tale circostanza anche a i miei superiori gerarchici». Il riferimento è sicuramente al comandante della stazione di piazza Farnese, Sandro Ottaviani, che ha raccontato ai colleghi del Nucleo investigativo - mentendo - di aver ricevuto l'arma di Varriale all'ospedale Santo Spirito, dove era stato ricoverato Cerciello. Ottaviani non è indagato dalla Procura penale, come non lo è Varriale (su cui invece la Procura militare ha aperto un fascicolo per violata consegna). Di fronte, però, alla contestazione dei pm in merito al verbale di sommarie informazioni reso il 28 luglio in cui Varriale aveva riferito ai carabinieri di aver portato con sé la pistola quella sera, il militare precisa: «Evidentemente si è trattato di un errore dovuto a un cattivo ricordo su una questione che non ritenevo determinante in merito alla ricostruzione dei fatti». Ammesso pure che il carabiniere abbia mentito per evitare un procedimento disciplinare, poco cambia ai fini dell'indagine sull'omicidio. Anche perché, il fatto che i due militari fossero disarmati, avvalora l'impianto accusatorio della Procura, secondo cui gli americani hanno agito con l'intento di uccidere due carabinieri qualificatisi come tali e non per difendersi da un'aggressione di quelli che credevano dei pusher. Inoltre, l'attendibilità del resoconto di Varriale è suffragata dalla testimonianza «terza» di un romeno che quella notte stava dormendo per strada, all'angolo tra via Cesi e via Gioacchino Belli. Dal suo giaciglio, il clochard vede i carabinieri sopraggiunti in via Cossa «parlare brevemente con uno dei due giovani, ossia con quello descritto da lui come "ben pettinato": indubbiamente Natale Hjorth - si legge nell'informativa dei carabinieri - Mentre l'altro giovane era rimasto in disparte in silenzio». Dopo alcuni attimi, il romeno vede quello “ben pettinato” agitarsi, scagliandosi contro i due interlocutori, «al punto da costringerli a indietreggiare nell'evidente tentativo di evitare una colluttazione». Intuendo che stava scattando una rissa, Constantin, per paura, si nasconde. Ha ammesso di non aver sentito le parole proferite, in quanto ha problemi di udito, ma le sue dichiarazioni «sono riscontrate dalle immagini degli impianti di videosorveglianza», concludono gli investigatori di via In Selci.

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