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Via Poma, undici ragioni per assolvere Busco

Renato Busco piange, abbracciato dalla moglie

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Undici ragioni per assolvere Raniero Busco. Sono le motivazioni depositate in tempo record, a un mese e mezzo scarso dalla sentenza d'appello che ha ribaltato il giudizio di primo grado, dal giudice a latere Giancarlo De Cataldo. Il debutto è lapidario: «Non vi sono elementi per ritenere provata al di là di ogni ragionevole dubbio la penale responsabilità» dell'imputato, che «va quindi assolto con la formula per non aver commesso il fatto». Nelle 187 pagine che illustrano il verdetto emesso il 27 aprile dai giudici della Corte d'assise d'appello presieduti da Lucio Mario D'Andria, si spiega perché Simonetta non è stata assassinata dal suo ex fidanzato. Intanto, «fu uccisa tra le 18 e le 19 del 7 agosto 1990 e chi commise il delitto, o altra persona, ripulì accuratamente la scena del delitto, portando via la maggior parte degli indumenti di Simonetta». Busco non aveva motivo per pulire e portarsi via gli abiti. Non «vi è prova che in occasione dell'omicidio alla Cesaroni fu inferto un morso». Se pure così fosse, «una sua attribuzione all'imputato non sarebbe scientificamente sostenibile». Infine, i giudici d'appello si soffermano sulla «lettura unitaria della vicenda» proposta dal pm durante il processo di primo grado. Una «ricostruzione suggestiva, plausibile, ma, ovviamente, non provata», quindi irrilevante. E ancora: per il collegio giudicante «non vi è prova che tra Simonetta e Raniero si fosse convenuto di incontrarsi il pomeriggio del 7 agosto» in via Poma «e non vi è nemmeno prova che Busco conoscesse il luogo di lavoro di Simonetta». Infine, non è possibile dimostrare che Busco abbia fornito un alibi mendace». Anzi, «vi sono elementi che inducono a ritenere che egli abbia, sin da subito, ricostruito i movimenti del pomeriggio del 7 agosto in termini sostanzialmente coincidenti con quelli poi emersi nel dibattimento. In ogni caso, si può al massimo parlare di alibi carente, ovvero assente, ma non mendace».  

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