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Non ceno. Prima assalto la carovana

Una ragazza si collega a facebook

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Inchiodata al monitor del computer, sola, nella sua stanza, venti ore al giorno. Luci soffuse, mattino e sera avevano perso i connotati. Metodica: colazione poi internet, colazione poi internet. Prigioniera del suo avatar digitale, una brigantessa d'altri tempi. Francesca, nome di fantasia «così evitiamo che qualcuno mi riconosca, c'è ancora molta diffidenza e incredulità intorno a questa malattia», è una studentessa romana, ha 25 anni. «E sono internet dipendente». Un'ammissione che ci si aspetterebbe da un drogato, da un alcolista: «Ma noi siamo come loro». Bulimia telematica, il passatempo tracimato nella dipendenza, dipendenza che richiede una cura sartoriale, da cucire addosso ad ogni paziente, che - in questo contesto soprattutto - non somiglia a nessun altro. È la storia dei nostri giorni ad aver imposto agli esperti di esercitarsi in un perfetto prototipo di ingegneria medica, il reparto dedicato ai soggetti internet dipendenti del Policlinico Gemelli che, dal giorno della sua inaugurazione, nel 2009, fronteggia un'emergenza dai contorni sempre più labili. La contabilità clinica dell'équipe ben suggerisce la portata del fenomeno: circa 180 pazienti, alcuni guariti altri ancora in terapia, ed una media di 5 telefonate di aiuto ogni giorno. Dipendenza da internet comune denominatore; ci sono poi sfumature tra social network, giochi d'azzardo, pornografia e giochi di parte. E proprio su questi ultimi è «scivolata» Francesca. «È iniziato tutto un anno fa, come passatempo - ci racconta - "Regni rinascimentali", così si chiamava il gioco, era motivo di svago. Si entra in contatto con una nuova dimensione, si conoscono tanti cybernauti, di altri paesi e nazioni, si instaurano relazioni, trae in inganno anche il fatto che davvero tanta gente vi si appassiona, quindi credi non ci sia nulla di male». «Non era un sacrificio vivere nella mia stanza - ricorda Francesca - Non avevo più desideri, né di uscire con gli amici né col fidanzato. In testa c'era solo la mia missione: interpretavo una brigantessa di un'altra epoca, assaltavo carovane, mi interessava solo riconoscere i miei nemici ed incassare il bottino. Ero brava a nascondere tutto, col fatto che frequentavo l'università dicevo di dover studiare. Poi, qualche mese fa, ho iniziato ad avere paura, mi sono davvero sentita come una tossicodipendente, e sono andata al Gemelli. Quando l'ho detto ai miei genitori, sono rimasti di sasso, non capivano: non abbiamo problemi, stiamo bene, non ci sono stati traumi, sono una ragazza normale. Oggi seguo la terapia ma ancora non so come è potuto succedere. Sola certezza, d'ora in poi, è che userò internet solo il minimo indispensabile, e mai più nickname».

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