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La gangster story di Placido sulla ferocia di Vallanzasca

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Vallanzasca,dunque, dal principio alla fine, da quando, ragazzino, capitanava bande di piccoli ladruncoli, fino alla creazione di quella temibile banda che, dagli anni Settanta in poi, devastò Milano e tutta la Lombardia con assalti alle banche, rapine a mano armata, spietati versamenti di sangue non solo ai danni delle forze dell'ordine, ma anche al suo stesso interno o, in più momenti, in violenti confronti con organizzazioni rivali. Al centro, però, e in primo piano, sempre lui, il bandito che conquistava le donne, che, finito dietro alle sbarre, ne riusciva sempre ad evadere, con momenti anche privati, i rapporti con i genitori, con una ragazza da cui avrà un figlio, con un'altra che sposerà in carcere con una cerimonia tutta colori vistosi soprattutto ad uso di quella stampa sempre disposta a fargli eco. Un ritratto davvero a tutto tondo che alla Mostra di Venezia, dove il film è stato presentato l'estate scorsa, ha suscitato polemiche per l'interesse che dimostrava in favore di un personaggio con una lunga scia di sangue alle spalle. Placido, però, in linea con quel cinema americano sui gangster, da "Scarface" a "Dillinger", ha scelto di non dare giudizi (un po' come Scorsese in "Quei bravi ragazzi") e tutte le sue attenzioni le ha rivolte a quella figura centrale di cui, ignorandone forse un po' attorno le cornici, ha messo soprattutto in rilievo la determinazione e, in alcuni passaggi, anche la ferocia, rappresentandole con un dominio sempre più sicuro del cinema: ritmi affannati, immagini dure e violente, climi quasi sempre stravolti e esasperati: con poche pause. Sostiene l'impresa Kim Rossi Stuart, intento a modulare con sapienza - gestuale e mimica - tutte le gamme di un carattere selvaggio ed irruente cui il film fa riferimento per intero. Raccogliendone la sfida con saldi risultati.

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