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Flaminio, riecco le baraccopoli

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SilviaMancinelli Un paio di scarpe appese a una rete. Quella che un tempo, chissà ormai quanti anni fa, delimitava un campo da calcetto oggi trasformato in un acquitrino. Sullo stesso filo, su un paio di stampelle ad asciugare, ci sono poi una camicia a fiori da donna e un cappotto. Sono i segni più tangibili di una baraccopoli fantasma che, nascosta da canneti alti fino a tre metri, si fa beffe quasi degli ignari inquilini dei palazzi della Roma bene. Siamo sugli argini del Tevere, nell'elegante quartiere delle Vittorie tra Prati e lo stadio Olimpico. Sull'altra sponda i circoli sportivi del Flaminio. E' sufficiente affacciarsi dai muraglioni che proteggono la pista ciclabile del lungotevere per intravedere qualcosa tra la fitta vegetazione: tetti di baracche e qualche straccio che poco o nulla lasciano immaginare dell'incredibile realtà. Addentrandosi nella giungla di canne, rovi e spazzatura ecco i resti di una vecchia struttura turistica trasformata in un villaggio della disperazione. Raggiungerlo non è difficile: qualcuno ha tagliato la rete metallica per ricavarsi dei comodi varchi in entrata o rapide vie di fuga in uscita. Vecchi stand trasformati in baracche, perfino le gallerie che corrono sotto al lungotevere sono state chiuse da porte improvvisate e adibite a rifugio di clandestini. Tutto intorno, per centinaia di metri lungo l'argine, baracche e capanne tirate su con vecchi pali o legni e teli da cantiere, usando come tetti onduline di metallo recuperate chissà dove. Più indietro, quasi all'angolo con piazza maresciallo Giardino e a due passi dalla caserma, una casupola fatiscente reca i segni di una nuova occupazione: tracce di falò, panni stesi, perfino un triciclo raccontano di un'intera famiglia che ha trovato qui un riparo per l'inverno che avanza. Ma il degrado è ovunque: un tubo dell'acqua rotta trasforma in un lago di fango il piccolo piazzale che separa la galleria chiusa con tanto di lucchetto dal Tevere, in questo tratto tutt'altro che biondo. Di fronte al cunicolo, appoggiati su un muretto, un paio di vecchi scarponi si asciugano al sole facendo compagnia ad una valigia sfondata e a un baule che custodisce le povere cose del misterioso inquilino. Risalendo alla luce l'ultima occhiata sfiora un ammasso di blocchi di cemento, cartelloni pubblicitari. A sovrastare il tutto l'insegna ben leggibile di Ponte Cavour rimanda al mondo in superficie. Così lontano, eppure così vicino, a questo inferno di spazzatura e degrado.

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