
Pd, i traditori dem del Jobs Act: i voltagabbana che ora lo rinnegano per paura di Schlein

È il Pd prêt-à-porter, che cambia abito ogni stagione rinnegando i capi dismessi. Il Nazareno in versione Elly Schlein: la “stilista” che impone alla sua maison di fucilare le collezioni precedenti. Insomma, al macero il vintage, «todo cambia». È quello che sta succedendo oggi con il referendum sul Jobs Act, legge approvata nel 2014 dal governo Renzi e votata da quasi tutto il Pd (tra i quali Morassut, Orfini, Gribaudo, Braga, solo in 40 si dissociarono su oltre 300). Ora la segretaria detta la linea: «va fatta in tutti i modi la campagna per il sì, guai a distinguersi». Con tanti saluti alla minoranza, che aveva provato — a dire il vero con voce più che flebile— a proporre libertà di coscienza. Inevitabile la conseguenza: «ricordate chi firma le liste dei candidati alle prossime elezioni politiche». Traduzione: zitti e mosca, se volete essere ricandidati. Si apre così un problema di coerenza per quei parlamentari che nel 2014 benedissero il “verbo” renziano (oggi ne sono ancora in carica trentatré tra Camera e Senato), e che l’8-9 giugno saranno chiamati a votare contro se stessi (Malpezzi, Guerini, Losacco, Ascani, Bazoli, De Maria tra gli altri).
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Il più lesto e “creativo” è Andrea Orlando, tallonato da molti colleghi della sinistra dem. Il ligure, allora ministro della Giustizia nel governo Renzi, accolse con entusiasmo il Jobs Act: «Questo governo affronta cose che per molto tempo sono state messe sotto il tappeto, a partire dal tema del precariato». Zero dubbi, zero esitazioni: l’importante è mantenere l’incarico. Due anni dopo, la dichiarazione si addolcisce in puro stile politichese: «Non mi sono mai pentito di averlo votato, ora è necessario fare un tagliando». Nel frattempo, era ancora Guardasigilli, ma a Palazzo Chigi Renzi aveva lasciato il posto al compagno di partito Paolo Gentiloni. Con il tempo, l’ex ministro ha preso sempre più le distanze dal provvedimento. Fino a ieri, quando ha detto: «Il quorum non è un problema della Cgil o del Pd, ma della democrazia». Votare l’abrogazione comunque resta un dovere.
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Dopo Orlando, ecco Antonio Misiani, all’epoca deputato della Commissione Bilancio e oggi responsabile Economia del partito. «Il Jobs Act è la riforma del lavoro più ambiziosa dal 1997», scrisse lui stesso in un rapporto trionfale. Poi arrivò il 2024 e, come un amante deluso, il senatore lo liquida così: «È stato deludente». Tempismo perfetto per sfilare senza inciampi nella passerella elettorale di giugno. C’è anche Roberto Speranza, ex capogruppo Pd, che dieci anni fa tuonava: «Sul Jobs Act non è tempo di veti, né di aut aut», non disturbate il manovratore. La sua corrente, quella bersaniana, fu convinta a votare la riforma grazie a una mediazione dell’allora presidente della Commissione Lavoro, Cesare Damiano. Poi, com’è noto, presero cappello e si rifugiarono in Articolo Uno: un’esperienza sommamente infausta, che li ha riportati alla "casa madre" con l’arrivo di Elly Schlein. E infine Dario Franceschini, l’uomo di tutte le collezioni Pd, allora ministro della Cultura e sostenitore convinto del Jobs Act. Oggi invece come tanti altri completamente afono. Da riforma simbolo a capo fuori moda, abbandonato nell’armadio come un tailleur fuori taglia: «Come si cambia per non morire, come si cambia per ricominciare». Ora il diavolo veste Schlein..
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