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Elezioni politiche, è il giorno del voto. La parola passa agli italiani

Dario Martini
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Oggi finalmente la parola passa agli italiani. Urne aperte dalle 7 alle 23 per scegliere i nuovi seicento parlamentari. Un numero ridotto rispetto al passato grazie alla riforma che ha tagliato 230 deputati e 115 senatori. Un fatto significativo da tenere in considerazione per capire la solidità della maggioranza che uscirà dal voto. La campagna elettorale che ci lasciamo alle spalle è stata sicuramente inedita. Per due fattori. Primo: si è combattuta d’estate. Secondo: mai come stavolta è stata contrassegnata dai tentativi d’ingerenza stranieri. Istituzioni europee, capi di governo, ambasciate e media sono entrati a gamba tesa cercando di influenzare, più o meno consapevolmente, il voto.

Il premier uscente Mario Draghi si è tenuto fuori dalla partita quasi fino all’ultimo. Poi, pochi giorni fa, durante la conferenza sul decreto Aiuti ter, ha ceduto alla tentazione e si è tolto qualche sassolino dalle scarpe. Prima ha gelato Letta, Renzi, Calenda e Di Maio, specificando che mai e poi mai tornerà a fare il presidente del Consiglio. Poi ha lanciato una serie di stoccate al centrodestra su vari temi: sanzioni alla Russia, Ungheria, scostamento di bilancio e Pnrr. Tra coloro che avrebbero voluto ancora Draghi a Palazzo Chigi c’è sicuramente il presidente ucraino Volodymir Zelensky. Già a luglio auspicava che SuperMario continuasse a governare. Poi, l’altro ieri, attraverso il suo portavoce, ha parlato con il quotidiano la Repubblica lanciando un monito agli italiani: «È essenziale che scelgano candidati che abbiano e seguano i giusti principi morali». Anche l’ambasciata russa in Italia è entrata nella contesa, pubblicando sui propri canali social una galleria fotografica che immortala Vladimir Putin con alcuni politici italiani. Già dal titolo si capisce dove vuole andare a parare: «Dalla storia recente delle relazioni russo-italiane. C’è molto da ricordare». C’è la foto di Putin assieme a Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Giuseppe Conte nel 2019, quella in cui stringe la mano a Matteo Renzi nel 2015, lo scatto insieme a Enrico Letta nel 2013 e quello con Silvio Berlusconi nel 2010.

Anche gli Stati Uniti non hanno perso l’occasione per lanciare messaggi a Roma. Giovedì scorso un alto funzionario della Casa Bianca ha spiegato che «Joe Biden dovrà avere una conversazione precoce e prendere le misure» del nuovo primo ministro italiano, oltre che «stabilire cosa questo significherà». Niente comunque a che vedere con le ingerenze arrivate dalla Commissione europea e dal governo tedesco. Ursula von der Leyen, di fronte alla possibile vittoria del centrodestra, ha spiegato che «se l’Italia andrà in una direzione difficile la Commissione ha gli strumenti per intervenire». Parole definite «disgustose» da Salvini, che ha chiesto alla numero uno dell’esecutivo europeo di «scusarsi o dimettersi».

Il vice di von der Leyen, Frans Timmermans, esponente del partito del Lavoro olandese, è stato ancora più sfacciato quando ha detto che «l’agenda sociale della destra italiana fa paura». La strumentalizzazione delle istituzioni in favore di una sola parte politica è andata in scena pure pochi giorni fa, con Letta che è volato a Berlino per incassare l’endorsement del cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz, il cui partito ha invitato gli italiani a non votare per FdI. Una mossa talmente spudorata che Giorgia Meloni ha accusato il segretario del Pd di «aver barattato l’interesse nazionale italiano con l’interesse del suo partito». Le incursioni elettorali estere si sono verificate anche sul terreno dei media. Il settimanale britannico Economist ha pubblicato una copertina con il voto di Meloni a tutta pagina e il titolo «L’Europa deve preoccuparsi?». Il magazine tedesco Stern è stato ancora più esplicito, definendo la leader di FdI «la donna più pericolosa d’Europa».

Da oggi tutto ciò diventerà un ricordo. A contare sarà solo il verdetto che uscirà dalle urne. Gli occhi della politica sono puntati sull’affluenza. Fino a due settimane fa i sondaggisti prevedevano un’astensione elevata. Addirittura la più alta di sempre. Il partito del non voto, secondo gli scenari peggiori, è dato al 35%. Non è detto, però, che molti delusi dalla politica all’ultimo decidano di andare a votare. Tra i due rami del Parlamento quello più contendibile è Palazzo Madama. La riforma del taglio degli onorevoli ha fissato il numero dei senatori a 200 (alla Camera i deputati sono 400). La coalizione che aspira ad avere la maggioranza assoluta dovrebbe ottenere almeno il 65% dei seggi uninominali/maggioritari a patto che raggiunga almeno il 42% dei seggi proporzionali. Se prestiamo fede ai sondaggi pubblicati fino a quindici giorni fa, prima del "silenzio" imposto dalla legge, il centrodestra era in netto vantaggio. Pd, M5S e Terzo Polo, sebbene corrano separati, sperano nella rimonta. Per impedire che Salvini, Meloni e Berlusconi arrivino a 101 seggi, la maggioranza assoluta senza i senatori a vita, gli altri dovrebbero vincere almeno 31 seggi uninominali. È qui che si gioca la sfida nella sfida. Stanotte conosceremo il risultato.
 

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