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Alessandro Di Battista contro Grillo: "Padre padrone". Lo sfogo durissimo, veleni su Fico e Di Maio

Carlantonio Solimene
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E adesso la spoon river del Movimento che fu è completa. C'era stato l'addio di Luigi Di Maio, il veleno vomitato sul ministro degli Esteri dall'ex «amico» Roberto Fico. Infine la tagliola del doppio mandato che ha decapitato tutta la prima generazione del grillismo di Palazzo. Mancava, però, il parricidio. Categoria politica dagli infiniti precedenti e che tuttavia aveva risparmiato i pentastellati. Beppe il fondatore, l'elevato, il garante, era intoccabile. Lo criticavano in tanti, specie ultimamente e specie tra i contiani. Ma nessuno in pubblico. Ci ha pensato Alessandro Di Battista, nei 17 minuti di video - il dono della sintesi non è mai stata una sua qualità - con i quali ha spiegato la sua mancata candidatura alle parlamentarie dei Cinquestelle. Il riassunto? «Non mi candido perché non ho avuto le garanzie che chiedevo».

Quali? Sostanzialmente l'autonomia per condurre le sue battaglie. Ma la vera motivazione è un'altra. E l'ex deputato non la elude: «Non voglio stare sotto il tacco di Beppe Grillo. Non mi fido più di lui. Avrebbe dovuto fare un passo di lato e non l'ha fatto». È un piccolo terremoto. Anche perché smentisce tutta la narrazione sulle presunte intenzioni del fondatore, che avrebbe puntato su Di Battista (e Raggi) per liberarsi di Conte dopo il presumibile flop elettorale. Niente di più falso. I due non si sopportano più. E i motivi sono tanti. Per l'adesione al governo Draghi, certo. Ma soprattutto per quanto successo dopo le dimissioni di Di Maio da capo politico. Quando Grillo impose di non procedere alla successione «perché se no avrei vinto io» accusa Di Battista. E quando partì l'ordine di non rendere noti i risultati degli Stati generali «perché se no si sarebbe visto che io, il "vacanziero", come mi chiamano, avevo preso il triplo dei voti del pluriministro Di Maio. E questo Luigi, che all'epoca era ancora un ducetto, non poteva accettarlo». Veleno a fiumi, retroscena va male mi si diceva plasticamente che ero sgradito».

L'unico risparmiato nell'intemerata dell'ex parlamentare romano è il capo politico. «Su tante cose siamo d'accordo, su altre no, ad esempio sull'atlantismo. Ma devo dire che Conte con me è sempre stato chiaro, onesto e trasparente. Sono convinto che sia una persona che ci tiene davvero al bene del Paese».

Un endorsement, almeno apparentemente. Perché in realtà, tra le righe, Di Battista fa capire che alla fine le decisioni che contano non sono prese dall'avvocato. Perché c'è sempre «il tacco di Beppe» a orientare tutto. E dove c'è Grillo, non può più esserci Dibba. Che ora farà altro, «un'associazione culturale per fare politica insieme da fuori, per darci una struttura e un'organizzazione civica per fare cittadinanza attiva. Per fare proposte e scrivere leggi, e poi magari portarle in Parlamento come leggi di iniziativa popolare». Un po' meno di un partito, almeno per ora. In futuro chissà. Quello che è certo è che in via di Campo Marzio - sede di un Movimento che nelle intenzioni originarie non doveva avere sedi- nessuno verserà lacrime per l'addio. Anzi. Il passo indietro di Di Battista non solo libera un seggio nel prossimo Parlamento (anche se era tutt'altro che scontato che gli fosse dato un collegio sicuro) ma, soprattutto, libera Conte da un'ombra ingombrante sulla sua leadership. Non a caso nessuno ha commentato lo sfogo dell'ex parlamentare, nessuno gli ha chiesto ufficialmente di ripensarci. In fondo, all'ex premier, va bene così: esercitarsi in un «one man show» elettorale senza doversi contestualmente coprire le spalle. E senza avere nessuno che, in futuro, gli impedisca di riallacciare i ponti con i Dem.

Difficile che accada oggi, in vista delle urne. Perché il tempo rimasto è pochissimo (entro domenica bisogna presentare simboli e apparentamenti) e perché la corsa in solitaria sta cominciando a dare qualche frutto. I sondaggi per la prima volta da mesi danno il Movimento in ripresa. Potrebbe essere un «rimbalzo» dopo i consensi persi per la crisi di governo o l'effetto della rottura tragicomica tra Letta e Calenda. Per la prima volta, però, Conte può guardare con un minimo di fiducia alle elezioni. Sempre che Grillo non intervenga e cambi nuovamente il quadro. Sull'asse Genova-Roma può accadere sempre di tutto.

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