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Crisi Ucraina, Italia senza gas per colpa dei no di ecologisti e sinistra

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Pietro De Leo
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Facciamo due conti. L’Italia ha un fabbisogno di gas pari a 70 miliardi di metri cubi l’anno. Uno stato di cose “favorito” dal percorso di transizione che punta tutto sull’elettrificazione, metà della quale si produce, appunto, con il gas. Attualmente (dato 2021) ne produciamo appena 3,3 miliardi, a fronte dei 20 di vent’anni fa. Abbiamo una importantissima dipendenza, quindi, dalle forniture straniere. La maggior quota “relativa” proviene proprio dalla Russia, circa 29 miliardi di metri cubi, il resto arriva da Algeria, Qatar, Azerbaijan, Libia. E un paio di forniture europee in Norvegia e Olanda.

Questo ci fa così temere il precipitare degli eventi della crisi tra Russia e Ucraina. Anche di fronte al fatto che l’ultimo Consiglio dei Ministri ha sì aumentato le possibilità di estrarre gas italiano, per arrivare ad una produzione nostrana di circa 5 miliardi di metri cubi, tuttavia ben lungi rispetto a quanto potremmo. E peraltro stando ben attenti a non aprire a nuove trivellazioni, essendo molto sensibile all’interno della maggioranza quell’area (che fa capo soprattutto al Movimento 5 Stelle) ostile alla cosa. Già, perché in questa partita energetica che si innesca con lo scenario geopolitico e atterra nelle tasche degli italiani, il tema ideologico è decisivo.

C’è l’accelerazione impressa alla transizione ecologica dalle suggestioni fomentate dal fenomeno Greta Thunberg e diventate perentoria agenda politica. Ma poi c’è anche l’insistere della politica del no a tutto, parte attiva di questa storia. C’è il sempre verde (nel senso di età, stavolta) "no al nucleare", ovviamente, germinato con la tragedia di Chernobyl, rinvigorito da quella di Fukushima e mai sopito. Ma poi ci sono i no-triv, assolutamente ostili alle trivellazioni e sbandieratori del dogma che le collega ai terremoti, su cui la scienza non ha ancora una posizione solida ma su in compenso si esercitano varianti di complottismo.

Poi ovviamente ci sono quelli del no ai termovalorizzatori. Sì, perché anche gli impianti destinati allo smaltimento dei rifiuti possono dare una mano per la produzione di energia. E’ utile, a tal proposito, leggere quanto affermato al Foglio un paio di giorni fa da Renato Mazzoncini, numero uno di A2A: “c’è un potenziale enorme sprecato in Italia e lo dimostrano i numeri. Sul consumo di gas” nel nostro Paese “utilizzato per riscaldamento, industria, produzione di elettricità, la quota di biometano domestico prodotto dal trattamento degli scarti è appena dell’1%: può arrivare a 10”.

Se non intervenissero comitati, movimento opinion leader contrari agli impianti adatti a compiere questa trasformazione. Ostilità che hanno riscosso anche le strutture adibite allo sfruttamento dell’energia geotermica. I comitati “No Geotermia”, infatti, sorgono qui e là un po’ ovunque nel nostro Paese. Un muro di no che mescola demagogia, sindrome Nimby e approcci pregiudiziali. Destinata, in qualche caso, a fare i conti con la realtà, con dolore di chi ci casca.

Il Movimento 5 Stelle ha raccolto molti consensi in Puglia manifestando l’ostilità alla realizzazione del Tap, la pipeline che oggi, alla luce della crisi energetica, si sta rivelando fondamentale per far arrivare il gas dall’Azerbaijan (nel 2021 ha fatto arrivare in Italia 6,8 miliardi di metri cubi). In una recente intervista a Repubblica, il sottosegretario Manlio Di Stefano ne ha sottolineato (giustamente) l’utilità. Peccato che a suo tempo sia stato tra gli oppositori. La giornalista, nel colloquio, ricorda quando lui definì l’infrastruttura “l’opera dei criminali”. Risposta: “è una questione di contesto storico differente”. Quello attuale, infatti, ci fa comprendere quanto il prezzo da pagare in bolletta sia non solo geopolitico, ma anche ideologico. 

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