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Mortificano le vere lotte femministe, Hoara Borselli all'attacco delle barricate della sinistra per il cognome materno

Hoara Borselli
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 Le frasi e le declinazioni al femminile, gli asterischi, la schwa: per la sinistra le parole sono fondamentali e inclusive, tanto che finisce per perdersi in sterili battaglie ideologiche sulle lettere. L'ultima «conquista» di genere arriva dalle parole pronunciate dal ministro delle Pari opportunità, Elena Bonetti, in un'intervista rilasciata al Corriere il 18 Febbraio, sul provvedimento, in corso di approvazione al Senato, che permetterebbe alle donne di attribuire al figlio il proprio cognome. La Bonetti ribadisce: «Ai figli il cognome della madre. Basta rinviare la libertà delle donne».

 

Difficile, se non impossibile, trovare un nesso logico tra l'attribuzione del cognome della madre ai figli e la conquista di libertà per le donne. Se il senso delle lotte femministe nostrane per l'emancipazione della donna passa dal nome di appartenenza, è il caso di ricordare loro quali battaglie hanno dovuto affrontare le nostre paladine per portare in dote al genere femminile conquiste come la legge 898 sul divorzio del 1° Dicembre 1970 e la 194 sull'aborto, del 22 Maggio 1978. E poi la riforma dello stato di famiglia, e l'abolizione del reato di adulterio (che era un reato esclusivamente femminile), per non parlare del diritto di entrare in magistratura (1964) e nel governo col rango di ministro (1976). Un tempo le femministe combattevano per ideali concreti per migliorare veramente la condizione della donna. Sessualità, stupro, violenza domestica, costruzione degli asili, erano ciò per cui venivano riempite le piazze con vere rivoluzioni culturali. Oggi quelle stesse femministe, di fronte alla proposta della Bonetti, lancerebbero il loro il fazzoletto rosa al vento, in segno di resa. «La battaglia dei cognomi» può calare un mesto sipario su quello che fu, e aprire scenari desolanti su ciò che sarà. Immersi nella sterile narrazione di un politicamente corretto esasperato, che non consente di parlare delle donne come persone che si possono difendere.

 

Il MeToo ha consegnato l'immagine del genere femminile come quella di un burattino fragile e senza coraggio. Un femminismo negazionista che per affermare il giusto principio di difesa, di quello che un tempo veniva definito «sesso debole», non ammette riflessioni e tratta le ragazze come esseri inconsapevoli, in balia degli eventi, destinate ad essere dominate dagli uomini. Attribuire ai figli il cognome della madre è veramente la conquista di emancipazione cui si sentiva il bisogno? L'enigma del cognome pone poi un ulteriore quesito sterile: se i genitori non dovessero trovare l'accordo per il nome cosa succede? A questa domanda il ministro Bonetti propone che venga attribuito il doppio cognome in ordine alfabetico, mozione che viene subito rimandata alla mittente nell'intervista in quanto viene fatto notare che in questo modo, tra qualche generazione, i bambini avranno decine di cognomi. La risposta del ministro di IV è degna del miglior Antani di «Amici Miei»: «Innanzitutto non è obbligatorio aggiungere entrambi i cognomi. Si può decidere per uno solo, quello della madre o del padre indifferentemente. Il legislatore cercherà sicuramente di semplificare, ma la semplicità non consiste di certo nell'attribuire in automatico, e sempre, il cognome del padre, come avviene adesso».

 

Ci troviamo di fronte all'ennesima sterile controversia ideologica di sinistra. Per i democratici, la battaglia contro la nomenclatura parentale diventa una priorità essenziale, riducendo e depotenziando gli argomenti concreti per le donne come le discriminazioni sul lavoro o le adozioni. Al contrario è più proficuo perdersi nel politicamente corretto della linguistica per dare un segnale fatuo di rivoluzione culturale. Pochi giorni fa è stata promossa una raccolta firme «a difesa della lingua nostra» su change.org, dopo che il ministero dell'Istruzione aveva usato la schwa in un documento ufficiale, scatenando una petizione contro il famigerato asterisco in quanto «frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell'inclusività». Da madre mi sono chiesta se poter attribuire ai miei figli il mio cognome avrebbe legittimato il mio ruolo più di quanto già non lo sia. «No», mi sono risposta, anzi, se sentissi la necessità di vedermi un passo avanti rispetto al padre per sentirmi migliore, vorrebbe dire che il MeToo è stato invasivo nella mia testa più di quanto non lo sia stato un figlio nel mio corpo.

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