Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

M5S, non è una democrazia sana se un giudice decide su un partito

Riccardo Mazzoni
  • a
  • a
  • a

Lo spettacolo di un Movimento nato per instaurare la democrazia giudiziaria che viene decapitato dalla magistratura è roba da teatro dell’assurdo, e non può che suscitare ilarità e compiacimento, come la chicca dell’avvocato del popolo messo in trappola dai suoi stessi arzigogoli burocratici. Che la rivoluzione visionaria di Casaleggio senior dovesse finire sommersa dal guazzabuglio di cavilli con cui ha alimentato in questi anni la democrazia eterodiretta sui social era scritto nel destino, ma – messa da parte l’istintivo ghigno di soddisfazione – è forse il caso di porsi due interrogativi abbastanza inquietanti: è una democrazia in salute quella in cui un giudice può interferire sulle scelte interne di una forza politica, interpretandone lo statuto? E questo non aggrava ulteriormente una situazione già molto squilibrata nel rapporto tra magistratura e democrazia rappresentativa, dopo che una Procura della Repubblica, mettendo nel mirino Renzi, si è arrogata il diritto di stabilire cos’è un partito e cosa invece una Fondazione politica?

L’articolo 49 della Costituzione definisce i partiti come associazioni libere di cittadini per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, e da almeno trent’anni è aperta la discussione se “metodo democratico” si riferisca, oltre all’obbligo ovvio di rispettare la Carta e i responsi del corpo elettorale, anche all’organizzazione interna. Il problema è molto intricato e va quindi oltre il caso in questione dello statuto grillino: non è un caso se il Parlamento non ha mai varato una legge attuativa del dettato costituzionale, come è stato invece fatto per i sindacati. Ripensando ai tre quarti di secolo di storia repubblicana, c’è stata una Prima Repubblica in cui i partiti erano davvero l’elemento fondante della democrazia, con milioni di iscritti e tassi di partecipazione elettorale tra i più alti dell’Occidente, anche se della legge di regolazione dei partiti politici non c’era traccia. Poi, dopo il crollo del Muro di Berlino e la stagione di Tangentopoli, il vecchio sistema dei partiti è letteralmente imploso sotto il peso dei fondi illeciti e dell’antipolitica giacobina, per arrivare alla resa finale scritta nel decreto 149 del 2013 del governo  Letta dal titolo illuminante: “Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore”. Ma l’illusione di risolvere per via normativa la crisi dei partiti ha solo peggiorato la situazione, autodelegittimando la politica e favorendone di fatto il commissariamento.

Facendo un passo indietro di trent’anni, ossia all’inizio della seconda Repubblica, non si può non ricordare che il sistema travolto dalla rivoluzione giudiziaria fu salvato dalla comparsa sulla scena di due partiti – Forza Italia e Lega, sostanzialmente leaderistici e senza democrazia interna: Se allora fosse stata vigente, ad esempio, la ferrea legge sui partiti tedesca, nessuno di questi partiti si sarebbe potuto presentare alle elezioni, e, se non si fossero presentati, in quanto privi di trasparenza interna, il corso della storia sarebbe cambiato, ma in peggio, non solo perché avrebbe stravinto la sinistra salvata dal ciclone giudiziario, ma perché gli elettori rimasti orfani del pentapartito avrebbero probabilmente disertato in massa le urne.

Un ragionamento che vale, ovviamente, anche per il Movimento Cinque Stelle, che ha sperimentato la democrazia diretta sul web, di cui si può dire tutto il male possibile, ma nel 2018 ha mobilitato il consenso di un elettore su tre. Lo stesso Partito Democratico, ritenuto l’architrave della partitocrazia, ha incentrato la selezione del leader, ma anche dei candidati sindaci, sulle primarie, che non sono normate per legge.
La prima vera questione da affrontare non è dunque la democrazia interna dei partiti, ma lo strapotere della supplenza giudiziaria sulla politica, che l’ultimo libro di Palamara ha arricchito, si fa per dire, di nuovi e poco edificanti capitoli.

Dai blog