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Quirinale, per la sinistra è sempre colpa del Cav. Ma stavolta Berlusconi si è sfilato in tempo

Riccardo Mazzoni
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Per settimane il tormentone inflitto all’opinione pubblica dal mainstream del politicamente corretto è stato uno e uno solo: quello sull’inopportunità, al limite della provocazione, della candidatura di Berlusconi al Quirinale, descritta con qualche ragione come un’autocandidatura di fatto, mascherata però da una riserva da sciogliere dopo l’appello che gli è stato rivolto apertis verbis, ma senza alcuna convinzione, dai suoi alleati.

In un Paese in cui la sinistra non cambia mai abitudini, l’indignazione è tornata al diapason dei giorni belli, con il popolo viola riconvocato in piazza sul copione abusato delle vecchie parole d’ordine anti Cav, le intemerate di Nanni Moretti e via dicendo. Sono stati riaperti, insomma. tutti i sepolcri imbiancati di una stagione che sembrava definitivamente archiviata da quando il Cavaliere era diventato una risorsa spendibile, una carta da giocare sul tavolo della maggioranza Ursula in funzione antisovranista.

Ma non è questo il punto, perché è stranoto che il fronte cosiddetto progressista non ha mai perso il vizio di giudicare gli avversari a seconda della convenienza temporale: la vera questione politica è un'altra, e attiene al teorema ampiamente propagandato che attribuiva a Berlusconi, con la sua voglia matta di salire gli scalini del Colle, la responsabilità di non poter trovare un rapido accordo per la successione a Mattarella: un’urgenza dettata dalla condizione del Paese, ancora in preda alla pandemia e alle prese con il ritorno strutturale di un’inflazione che, abbinata al debito pubblico monstre che abbiamo accumulato, potrebbe formare una miscela esplosiva capace di bloccare la ripresa e di riaccendere lo spread.

L’Italia sarebbe stata insomma ostaggio, in un momento drammatico e cruciale come questo, del narcisismo di un anziano leader indifferente all’interesse nazionale e propenso solo a coronare nel modo più degno e improbabile la sua eccezionale storia imprenditoriale e la sua controversa – agli occhi della sinistra - carriera politica. Un teorema platealmente smentito dal passo di lato annunciato sabato sera, ma soprattutto dall’evidenza empirica di queste ore convulse, col rebus del Colle che invece di semplificarsi si è ulteriormente complicato, segno che la figura di Berlusconi era solo un comodo usbergo dietro cui partiti e coalizioni si riparavano per nascondere faide interne, assenza di leadership e contraddizioni che all’immediata vigilia del primo scrutinio sono venute tutte a galla, fotografando in modo spietato le lacune di una classe politica che neanche un anno di forzata unità nazionale è riuscito ad affrancare dalla deriva che l’ha condotta a ben due commissariamenti in un solo decennio, prima con Monti e poi con Draghi.

E qui si pone la seconda questione: la storia ha già dimostrato, per chi non la scruta con gli occhi obliqui della faziosità, che la lettera spedita dalla Bce nell’agosto del 2011 all’allora premier Berlusconi e firmata dal direttorio Trichet-Draghi, che costituì il presupposto del cambio di governo, fu solo il tassello fondamentale di una manovra politica e speculativa ad ampio raggio, con terminali esteri ben individuabili, per porre l’Italia sotto tutela a colpi di spread drogato. Il protagonista di quella svolta fu Napolitano, che diresse l’orchestra dal Quirinale contro Berlusconi, ma uno dei convitati di pietra fu proprio Draghi, e ora - per una delle strane coincidenze della stessa storia - sul palco si sono ritrovati ancora Berlusconi e Draghi, con il Quirinale sullo sfondo.

Il primo si è ritirato dalla scena, in modo sofferto ma con alto senso delle istituzioni, mentre il secondo no, supportato da un coro solenne, quasi verdiano che imputa ai nostri politici di non essere ancora riusciti ad adeguare la propria funzione rappresentativa alle responsabilità decisionali richieste dal quadro internazionale e dai mercati.

Tradotto dal politichese: Draghi sarebbe l’unico in grado di garantire, grazie al ruolo assunto dai presidenti della Repubblica nella Costituzione materiale invalsa negli ultimi due Settennati, la sostenibilità di quasi tre trilioni di euro di debito pubblico che abbiamo sulle spalle, pena la ricaduta del Paese nella spirale dello spread, nonostante i soldi a pioggia del Next Generation Eu. Dopo undici anni, insomma, siamo ancora al punto di partenza, come in un gioco dell’Oca che somiglia a un Risiko: a una politica che ha bisogno di tutori internazionalmente riconosciuti per non cadere nell’abisso della speculazione. Su questo è sicuramente aprire una riflessione, ma possiamo almeno dire senza essere linciati che stavolta Berlusconi non c’entra?

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