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Corsa al Quirinale, Draghi torna a tessere la sua tela

Carlantonio Solimene
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Due incontri nel giro di poche ore che, nei giorni che precedono il gran ballo del Quirinale, non possono passare inosservati e mandano in fibrillazione il mondo politico. Ieri il premier Mario Draghi ha lasciato Palazzo Chigi per incontrare la mattina Sergio Mattarella al Quirinale e il pomeriggio il presidente della Camera Roberto Fico a Montecitorio. Entrambi i faccia a faccia sono durati circa un’ora e, stando alle versioni ufficiali, sarebbero serviti solo per fare il punto sull’attività del governo e sul percorso parlamentare dei vari provvedimenti. Ma, chiaramente, a tenere banco sono i retroscena e le ipotesi avanzate in transatlantico. Scartata la possibilità che il premier si sia recato da Fico per discutere della querelle sul diritto di voto per il quirinale dei parlamentari eventualmente positivi - è materia che, semmai, spetta al ministro per i Rapporti con le Camere, Federico D’Incà - sono in molti a ritenere che Draghi abbia chiesto al presidente di Montecitorio di figurargli un quadro realistico delle reali intenzioni dei gruppi parlamentari e, in particolare, della variegata e nervosissima pattuglia grillina.

Il motivo è presto detto: la presenza in campo di Silvio Berlusconi prefigura uno scenario totalmente diverso rispetto a quello di qualche mese fa. Draghi, da potenziale candidato «di tutti» per le prime votazioni, potrebbe diventare il candidato della «disperazione» dalla quinta votazione in poi se, alla quarta, il sogno di Berlusconi dovesse infrangersi contro i numeri e il centrodestra, destabilizzato dal flop, fosse incapace di avanzare un’altra proposta unitaria. A quel punto, con il Paese smarrito di fronte a una politica incapace di sbrogliare la matassa del Colle, ai partiti non resterebbe che rivolgersi all’unica figura in grado di coalizzare un ampio consenso.

Nelle ultime ore, però, si fa sempre più strada la possibilità che Draghi non sia davvero l’unico a poter realizzare una grande intesa sul Colle. E, nonostante i ripetuti «no grazie» a un bis, il nome di Sergio Mattarella sta tornando prepotentemente a circolare. Lo voterebbero a occhi chiusi i grillini, consapevoli che solo mantenendo l’attuale assetto istituzionale la legislatura sarebbe blindata fino al 2023. Ma lo sponsorizzerebbe anche Forza Italia - Berlusconi continua a ritenere Draghi colpevole di «ingratitudine» nei suoi confronti - e non potrebbe certo dire di no il Pd. Non è escluso, quindi, che l’altro incontro tenuto ieri da Draghi, quello con Mattarella, sia servito anche a comprendere le reali intenzioni dell’attuale capo dello Stato. Se, cioè, di fronte a un’impasse e a un Paese in piena crisi istituzionale il suo no possa essere riconsiderato.

Non è ben chiaro quali sarebbero state le risposte ottenute da Draghi. L’unica cosa certa è che il premier non intende abbandonare il basso profilo adottato nelle ultime settimane. Dall’indomani della conferenza di fine anno, per la precisione, l’unica occasione in cui aveva in parte scoperto le sue carte, mettendo a repentaglio l’intera operazione Quirinale. Fino a che non dovessero crearsi le condizioni giuste - non prima, quindi, della quarta votazione - il premier continuerà a non muovere un dito. Non farà nomi sul suo possibile successore - sarebbe una grave scortesia istituzionale nei confronti dell’attuale e del prossimi capo dello Stato - e tantomeno darà una risposta a quei leader che lo sondano per comprendere le possibilità di una nascita di un governo più «politico» da qui alla fine della legislatura.

Per il resto, a ricamare sul suo nome sono per lo più i grandi giornali stranieri, a partire dal New York Times che ieri ne ha tessuto le lodi: «Da quando è entrato in carica lo scorso febbraio, Draghi ha stabilizzato la politica instabile dell’Italia, reso il populismo fuori moda e assicurato i mercati internazionali con revisioni a lungo ricercate e misure severe contro il coronavirus. Ha trasformato una nazione il cui caos politico ha spesso suscitato derisione in un leader sulla scena europea e ha infuso negli italiani un rinnovato senso di orgoglio e fermezza». Che poi gli endorsement dall’estero servano davvero a salire sul Colle, questo è tutto un altro discorso.
 

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