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A Milano muore l'integrazione con le violenze di Capodanno. L'accoglienza è un'illusione

Riccardo Mazzoni
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Il branco di violentatori della notte di Capodanno a Milano era composto da giovani immigrati e da maghrebini di seconda generazione ipoteticamente già integrati. Questo è un dato di fatto inoppugnabile, e da qui bisogna partire per ricercare, al di là del gravissimo rilievo penale della vicenda, le cause profonde di un fenomeno inquietante che ha trasformato per qualche ora il centro della capitale del nord Italia in una banlieue parigina. Non è un paragone azzardato, perché in quelle periferie fuorilegge imperversano da anni bande organizzate di ragazzi di origine nordafricana, e le violenze sulle giovani donne sono all'ordine del giorno. Quanto è successo a Milano si era peraltro già visto, in circostanze analoghe, a Colonia, e non può essere frutto del caso, perché un'aggressione così mirata e diffusa, con il coinvolgimento di decine di delinquenti, era stata chiaramente pianificata, anche se è difficile al momento dire se dietro ci sia stata una precisa regia di stampo integralista. L'unica cosa certa è che non si può giustificare sempre tutto, come fa la sinistra, col disagio sociale e con l'emarginazione in cui vivono sacche di giovani sbandati e fuori controllo, perché si rischia di confondere la causa con l'effetto, e la vera domanda da porsi è se questa nuova generazione, almeno in parte, rifiuti pregiudizialmente l'identità italiana, e con essa quindi le nostre leggi e la nostra cultura, per cui una ragazza che non porta il velo diventa il bersaglio legittimo di ogni tipo di oltraggio.

 

 

E qui torna il triste parallelo con le donne delle banlieues, che più volte si sono ribellate alle violenze consumate dentro e fuori casa al grido «né sottomesse né puttane». «Quella messa in atto a Milano è frutto di una versione perversa della religione islamica» - ha detto Souad Sbai, ex parlamentare del Pdl e responsabile del dipartimento integrazione della Lega, ma l'Europa sbaglia a considerare la misoginia come mero riflesso culturale derivante da un'antica tradizione, perché così si annienta la dignità della donna. Il relativismo che le istituzioni comunitarie spargono da tempo a piene mani, le sentenze delle corti europee che legittimano surrettiziamente la sharia, oltre che la propensione delle sinistre a minimizzare nel segno del buonismo permanente effettivo comportamenti del tutto inaccettabili, sono tutti cedimenti valoriali che non favoriscono l'integrazione, ma alimentano, semmai, la tendenza a favorire la nascita di nuovi ghetti identitari.

 

 

 

È inutile girarci intorno: l'integrazione islamica in Occidente è storicamente difficile, è una questione religiosa e sociale che è illusorio risolvere semplicemente con le scorciatoie legislative: non è affatto detto, ad esempio, che la concessione della cittadinanza abbreviata costituisca un automatismo certo per raggiungere una reale integrazione di chi antepone a tutto l'appartenenza religiosa. Le esperienze di altri Paesi europei, purtroppo, vanno in tutt' altra direzione, basti ricordare i giovani musulmani di terza generazione che si fecero saltare nella metropolitana di Londra, o -appunto - alle periodiche rivolte nelle banlieues parigine. Insomma, il problema vero è quello di saper coniugare accoglienza e legalità, senza cedimenti alle sole ragioni degli altri, perché difendere i diritti degli immigrati senza citarne mai i doveri significa intraprendere la strada del dialogo a senso unico, che non è più dialogo ma semplicemente una resa. Le statistiche dicono che le ultime ondate migratorie dal Mediterraneo centrale- quasi raddoppiate in un anno - erano composte in prevalenza da giovani maschi, con una quota non marginale di minori non accompagnati. Riprendendo la recente riflessione del presidente Mattarella («Se i flussi continuassero con questi numeri la situazione diventerebbe ingestibile»), è lecito chiedersi dove finirà questa imponente massa di immigrati, e quante potenziali altre notti di Capodanno si preparano.

 

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