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Giorgia Meloni indica la strada da seguire. È racchiusa nella parola "identità"

Franco Bechis
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C'è una strada che Giorgia Meloni in questa edizione speciale di Atreju 2021 in versione prenatalizia, ha indicato a tutto il centrodestra, e la possiamo racchiudere in una parola semplice: “identità”. La leader di Fratelli di Italia ne ha parlato ieri chiudendo l'edizione della manifestazione a proposito della elezione del presidente della Repubblica, definendone il profilo ideale da difensore della identità e della integrità del paese che dovrà rappresentare. Ma c'è qualcosa di più profondo in quella strada individuata, perché secondo me il tema identitario è proprio quello che è mancata alla coalizione dei conservatori in Italia che anche per quel vuoto da dieci anni non è più al governo del Paese.

 

Ci sono forze politiche di quella coalizione, come avviene ora nell'esecutivo di Mario Draghi, e ci sono state anche in passato nei governi guidati prima da Mario Monti e poi da Enrico Letta. Qualcuno al governo, qualcun altro all'opposizione con scelte che inevitabilmente impediscono all'elettorato di percepire cosa diavolo sia questo centrodestra e quale identità appunto abbia. Non sto a ripercorrere le circostanze per cui questa separazione di fatto per motivi diversi e contingenti è accaduta in questi dieci anni, perché l'interesse ora è vedere se il centrodestra è in grado prima di giocare con dignità la partita della elezione del prossimo presidente della Repubblica e dopo anche di tornare al governo dell'Italia tutti insieme, chiunque ne sia il leader. 

 

Che cosa è accaduto in questo anno strano? Che a bordo del governo Draghi siano saliti in un momento di particolare gravità sanitaria (accadde lo stesso, ma per una emergenza finanziaria nel 2011 con Monti) due partiti del centrodestra, Forza Italia e la Lega di Matteo Salvini, mentre proprio la Meloni ne è restata fuori. Gli azzurri di Silvio Berlusconi hanno una vocazione governativa per natura, e non stupisce vederli lì. La sorpresa vera è stata quella della Lega, che per altro in questi mesi ha pagato un caro prezzo secondo i sondaggi per quella scelta. Salvini però ha stretto i denti con qualche inevitabile sbandamento e lì è restato. Per quale motivo? La risposta è nella storia recente del biennio 2018-19, quando nacque il governo gialloverde con il M5s mettendo insieme due forze che avevano non pochi punti comuni e una vocazione anti-sistema.

Il primo governo Conte di fatto non ha toccato palla. Aveva favore elettorale, è arrivato nelle stanze dei bottoni salvo poi scoprire che il potere era altrove e a loro non veniva concesso nulla. Quando hanno messo insieme una manovra economica che riuniva il cuore dei programmi elettorali, la commissione europea l'ha sbranata e hanno fatto ballare il governo fino a quando non è stata firmata la resa ponendo le basi per chiudere quella esperienza politica e mettere ai margini sia la Lega che il M5s, poi sopravvissuto solo per essersi infilato armi e bagagli in bocca al pescecane Pd che l'ha sbranato come era naturale che fosse.

 

Quella esperienza ha reso agli occhi di Salvini assai concreto il timore che in molti suoi consiglieri albergava: “Guarda che non si può vivere contro un sistema ben più forte dell'Italia. Perché il centrodestra può anche vincere le elezioni, ma poi troverebbe ostacoli talmente insormontabili da non riuscire a governare, e in poco franerebbe”. Questo si è sempre detto e ripetuto negli ambienti che contano in Italia e fuori, e volendo andare dietro a questo scenario la Lega è entrata nel governo Draghi con tutte le contraddizioni che quotidianamente esplodono. Il tentativo era quello di accreditarsi con quei poteri forti e ostili per rendere possibile in futuro un governo di centrodestra. La Lega ha fatto quel passo e ne ha pagato le conseguenze. La Meloni ha detto no e ne ha guadagnato copiosi dividendi almeno secondo i sondaggi. 

 

Sembra una trappola perfetta: se difendi la tua identità e vai avanti per la tua strada, prendi milioni di voti, ma poi ti trovi contro poteri che ti impediscono di governare. Ma se imbocchi la strada che ti chiedono di prendere proprio quei poteri, perdi i voti perché inevitabilmente diventi poco credibile per quell'elettorato che sempre più preferisce allora starsene a casa il giorno delle elezioni. Allora chi ha ragione? Chi sostiene che bisogna diventare un altro centrodestra, magari mettersi pure sotto il tetto del partito popolare europeo e diventare in fondo un'altra cosa deludendo i tuoi elettori o chi invece sostiene che non si può cambiare per nulla al mondo la tua identità, tiene stretti i voti e magari ne guadagna anche, ma rischia una vittoria di Pirro?

La Meloni indica un'altra strada, che dimostra la sua crescita politica e personale in questi anni: l'identità non può essere messa in discussione, ma è intelligente acquisire forza e rappresentanza proprio in quei luoghi (come l'Europa) dove i poteri tradizionali erano forti e ora lo sono assai meno. Lei oggi guida una terza forza, quella Ecr che raccoglie forse non il meglio, ma non poco dei conservatori europei, e l'operazione può essere allargata anche salendo di qualità. Credo che non sbagli, perché si può costruire con intelligenza, ma non diventare un'altra cosa rinunciando alla propria identità. Magari sbiadendosi il più che si può si viene accolti a corte, ma il biglietto non vale il prezzo: se forze popolari rinunciano a se stesse per aderire a quello sbiadito mondo fintamente progressista, retorico, egualitario, politically correct, allora sono meglio i nativi di lì. Per averne la copia sbiadita, meglio l'originale. E il centrodestra svanisce. Non è da prendere sottogamba quel che ha detto la Meloni ieri: è la questione cruciale di quella coalizione fin dal voto per il Quirinale.

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