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Dopo il pasticciaccio di Conte ora Enrico Letta è solo nella partita del Quirinale

Riccardo Mazzoni
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Il pasticciaccio brutto di Roma Centro, con il gran rifiuto di Conte, è stato un film dell'orrore politico talmente riuscito da apparire surreale. Era infatti difficile immaginare che in un colpo solo il Pd riuscisse a buttare all'aria non solo il «campo largo» in cantiere per sfidare il centrodestra alle prossime elezioni, ma lo stesso vicolo stretto dell'alleanza con i Cinque Stelle, che avrebbe dovuto per prima cosa saldare - grazie all'ingresso dell'avvocato senza popolo in Parlamento - una massa di manovra in grado di condizionare il voto per il Quirinale. Un castello di carte miseramente crollato sotto il peso di paure personali, rivalità mai sopite e contraddizioni insanabili che fanno del progetto strategico di Letta - la riedizione di un Ulivo allargato - una chimera, per cui il Pd si trova ora in mezzo al guado, con una linea che sarebbe tutta da ridefinire se Letta ne fosse consapevole. Ma intanto la prima conseguenza è che dopo l'incidente romano il segretario si troverà a gestire la partita del Quirinale come un'anatra zoppa, perché di Conte non può più fidarsi, e nemmeno della sua reale capacità di controllare il corpaccione parlamentare grillino, pronto a disobbedirgli dopo il diktat da Agenzia delle Entrate sul pagamento delle quote.

 

 

Eppure, è più che probabile che Letta continui a baciare la pantofola del Movimento, e di questo può sorprendersi solo chi pensa che il Pd sia davvero un partito riformista. Se così fosse, perché mai avrebbe dovuto garantire un sostegno a oltranza al secondo governo Conte, con una perseveranza ai limiti del suicidio politico, e donare ancora il suo sangue a Conte, anche se non lo ritiene più il punto di riferimento insostituibile del centrosinistra? Le ragioni di queste scelte si trovano facilmente nella storia della sinistra nella Seconda Repubblica e in quella specifica del Partito democratico, fondato dopo la disastrosa esperienza dell'Unione per affermare, attraverso la vocazione maggioritaria, la sua natura di autentico partito riformista, proclama però rimasto sempre e solo sulla carta.

 

 

Come il senso di Smilla per la neve, il Pd ha coltivato con determinazione degna di miglior causa un inesauribile senso per il populismo: basti pensare al campione del riformismo Veltroni, che nel 2008 - leader del partito e candidato premier - si scelse come unico alleato Di Pietro, ricalcando così le orme del suo rivale D'Alema, che undici anni prima aveva paracadutato l'ex pm alle suppletive nel collegio rosso del Mugello. Allora Di Pietro, oggi Conte: dal populismo in toga a quello in pochette, la sostanza per il Pd non cambia mai. Per cui chi aveva battezzato il cambio della guardia fra Zingaretti e Letta come l'inizio di una fase nuova nella costruzione del centrosinistra dopo l'Ulivo e la fusione a freddo tra nomenklature dopo lo scioglimento di Margherita e Ds, ha già avuto ampio materiale per ricredersi. Il pasticciaccio romano dimostra infatti, plasticamente, che da quelle parti non è alle viste alcuna svolta riformista.

 

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