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La doppia morale dei partiti. E la giustizia diventa elettorale

Benedetta Frucci
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C’è uno strano vulnus in questo Paese che vede venir meno la libertà di espressione quando si tocca la magistratura, riassumibile in una frase: le sentenze non si commentano. Qualche volta, se chi è stato colpito è un amico, si aggiunge un «ma». La sudditanza della politica verso la magistratura insomma, fa sí che quest’ultima possa commentare le leggi, mentre non vale il principio inverso, dimenticando che in democrazia si commenta tutto, a torto o a ragione, possibilmente con cognizione di causa. E invece, nel Paese degli errori giudiziari e di Palamara, non solo è possibile commentare le decisioni della magistratura ma, direi, è doveroso farlo. E se ne ha straordinaria occasione ogni volta che si avvicina un appuntamento elettorale, quando il sistema alza la testa e si prepara a tirar fuori i dossier che ha raccolto e gelosamente custodito per condizionare le votazioni. Magistratura, stampa, pezzi di Stato si incrociano nella catena di montaggio della macchina del fango pronta a indirizzare il voto popolare colpendo il nemico di turno. E così, a poche settimane dal voto, scoppiano il caso Morisi, c’è il rinvio a giudizio di Tiziano Renzi, la condanna a Mimmo Lucano e infine l’inchiesta di Fanpage su Carlo Fidanza. Quello che colpisce, non è tanto la specificità dei singoli casi, su cui ognuno può avere opinioni differenti, ma la tempistica con cui vengono diffusi.

 

 

Il social media manager di Matteo Salvini, Luca Morisi, viene colto in possesso di droga nel corso di un festino con due escort stranieri in agosto, in circostanze quanto mai particolari e opache, con il forte dubbio che di reato non vi sia neppure l’ombra. Siamo a metà agosto. La notizia tenuta giustamente riservata, esplode a fine settembre. E sempre a fine mese viene deciso il rinvio a giudizio di Tiziano Renzi, padre dell’ex premier, nell’inchiesta Consip: una vicenda che lascia perplessi, non solo per la nebulosità del reato contestato, traffico di influenze, ma anche perché viene prosciolto per due capi d’accusa e soprattutto perché l’unico reato contestato è destinato a prescriversi in pochi mesi. Stessa tempistica per Mimmo Lucano, sindaco di Riace, paese salito all’onore delle cronache come modello d’accoglienza dei migranti e candidato di punta nella lista di De Magistris in Calabria, condannato a oltre 13 anni per abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Infine, arriva la tegola su Giorgia Meloni: un servizio di Fanpage filma un presunto finanziamento illecito che provoca l’apertura di un’inchiesta e l’autosospensione dell’eurodeputato Carlo Fidanza. Un’operazione sotto copertura che durava da 3 anni e che è stata lanciata, guarda caso, un giorno prima che scattasse il silenzio elettorale.

 

 

Di fronte a queste ambigue vicende, la risposta della classe politica è stata, come sempre, l’applicazione del principio sempre valido «garantista con gli amici, giustizialista con i nemici». E così, la sinistra non ha perso tempo a scatenare un’ondata di fango sul leghista Morisi e su Giorgia Meloni, mentre ha riscoperto il garantismo sulla vicenda di Mimmo Lucano. A parti invertite, la Lega ha difeso il principio di innocenza per i suoi e invocato il ritiro della candidatura di Lucano in seguito alla condanna, dimenticando in questa circostanza di essere il partito che ha proposto i referendum sulla giustizia, compreso il quesito sulla cancellazione della legge Severino. In questo gioco di attacchi incrociati, il Sistema sguazza felice, perfettamente a suo agio: complice una politica che, anziché difendere compatta la propria autonomia, continua ad utilizzare le inchieste per colpire l’avversario. Avversario che, finito nel tritacarne, non può che rendersi conto di come difendersi «nel» processo, in Italia, sia molto difficile e occorra semmai, in tutti i modi, difendersi «dal» processo. In attesa che la tanto agognata chimera della riforma della giustizia arrivi e dipani i suoi effetti per riportare questo Paese un gradino sopra al Cile di Pinochet, per merito dei referendum e non di certo per una classe politica miope e pavida, una proposta per detonare il perverso gioco di condizionamento elettorale dato da inchieste e media: ripristiniamo l’immunità parlamentare piena, che, scherzo del destino, i padri costituenti inserirono nella Carta per volontà della sinistra, timorosa che la magistratura usasse l’arma delle inchieste giudiziarie per azzoppare la politica.

 

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