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Basta buttare via soldi: va ricostruita l'economia spazzata dal Covid

Franco Bechis
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Ogni giorno che arrivo o vado via dalla redazione de Il Tempo ho negli occhi la Galleria Alberto Sordi, che è proprio di fronte a palazzo Wedekind. La può vedere dalla finestra del suo studio anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi, che lì di fronte si affaccia. Ma non so se può cogliere quel che è avvenuto, perché è da troppi pochi mesi in quel posto. Eppure quella Galleria è un simbolo: fino a febbraio 2020 pullulava di gente che la frequentava e faceva acquisti nella ventina di esercizi commerciali che offrivano un po' di tutto: vestiti da uomo e da donna, borse, dolciumi, biancheria intima, ninnoli natalizi, occhiali, valigeria, giochi per bambini, cravatte, libri, musica oltre a un ristorante e più bar. Oggi sono restati solo tre esercizi commerciali e da mesi sulle vetrine di tutti gli altri locali abbandonati c'è l'annuncio commerciale di una società che offre in locazione gli spazi e non trova nessuno disposto ad affittarli. Peseranno anche i costi che certamente nel centro di Roma non sono bassi, ma quella Galleria è l'istantanea più chiara di cosa è accaduto all'economia italiana e soprattutto a una parte di essa nel lungo tempo della pandemia Covid 19. Lo stesso film che si può vedere in molte altre vie commerciali della capitale (fa impressione anche quella Nazionale che porta dalla zona di Termini a quella di piazza Venezia e sembra un cimitero di  serrande abbassate). Su Roma come sul resto di Italia si è abbattuta una tempesta di violenza straordinaria che ha sradicato e falciato via interi settori dell'economia, con ferite profondissime in quello del commercio. Non hanno messo cerotti lì nemmeno i 140 miliardi di euro stanziati in un solo anno forse perché spesi assai male o comunque perché dirottati altrove. Nel gruzzolone sono finiti anche 5 miliardi di euro usati per ridurre il cuneo fiscale a favore dei lavoratori come il governo di Giuseppe Conte bis aveva promesso di fare prima che esistesse il Covid. Sono soldi che hanno fatto il solletico agli squilibri del costo del lavoro italiano rispetto a quello degli altri paesi (troppo pochi) e che sono finiti in tasca per puro populismo nella quasi generalità dei casi a chi non aveva perso proprio nulla, mantenendo il posto di lavoro e spesso facendolo comodamente da casa. Una commessa o un cassiere di uno qualsiasi di quegli esercizi commerciali non ha potuto concedersi il lusso dello smart working per ovvi motivi e ha perso il suo lavoro, non prendendo nulla di quello sconto fiscale che era ampiamente rinviabile a momenti migliori per tutti. Sarebbe bastato che il premier Conte e il suo allora ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, parlassero agli italiani dicendo: “vi avevamo promesso questo sconto fiscale in busta paga. Ma avete visto che è accaduto con il Covid. Non possiamo mantenere la promessa, i soldi ci servono per ben altro”. Non era gente di coraggio alcuno, e ha preferito buttare in quel modo 5 miliardi di euro. 

 

 

Racconto questo non per andare controcorrente rispetto all'ottimismo sull'economia, perché è vero che il Pil italiano oggi sta risalendo con percentuali fra le più alte nel mondo occidentale, ma è altrettanto vero che quelle serrande abbassate non trovano alcuno che le possa rialzare. Visto che in queste ore si sta preparando la legge di bilancio per il 2022 e mettendo a punto la riforma fiscale per cui ci si è impegnati con la Ue, non buttare via i soldi è un imperativo categorico. Ipotizzare uno sconto fiscale- un nuovo intervento di riduzione del cuneo- di 2 miliardi di euro oltre ad essere del tutto inutile è anche ridicolo. In un momento in cui la vera necessità è la ricostruzione di un Paese di fatto terremotato è sciocco mettersi a grattare la pancia a questa o quella altra parte dell'elettorato per compiacere elettori, categorie o anche semplici lobbies. Se poi si dovesse operare sul catasto come si ha intenzione di fare il rischio è che alla maggiore parte della gente si portino via soldi, altro che dare un contentino. 

 

 

Non bisogna buttare via i soldi in nessun modo, perché anche dal mitico Pnr avremo assai poco: la parte maggiore è un prestito, che va restituito. Quella “gratis” è una cifra lorda, che si riduce assai nel netto e anche quella con un debito pubblico sopra il 150% del Pil va usata con grande oculatezza perché sia pure sotto altra forma andrà restituita. Si metta piuttosto mano al reddito di cittadinanza senza metterne in discussione il principio in sé (ricordo che lo sposò per primo Silvio Berlusconi quando si accorse che nella grande distribuzione gli italiani diradavano gli acquisti anche di beni di prima necessità), ma rivedendone ampiamente l'applicazione. La Caritas dice che non ha ridotto le sacche di povertà, anzi. E il motivo è facile da capire: gran parte di quelle risorse sono drenate da aree di Italia dove l'economia sommersa e il lavoro nero sono diffusissimi. In Calabria, Campania, Puglia e Sicilia il nero è il doppio della media italiana, e in alcuni casi ben di più. La criminalità organizzata non fattura, ma offre lavoro nero ben pagato. E il reddito di cittadinanza finisce in quel buco offrendo risorse preziose a chi non ne ha in realtà alcun bisogno, guadagnando illegalmente assai più di altri italiani che non rientrano nei parametri per riceverlo. Allora, cambiamolo proprio lì per non buttare via soldi: procedure più accurate prima di erogarlo, controlli serrati dopo averlo concesso, non cumulabilità con altri sostegni e siccome in quelle stesse aree il costo della vita è molto più basso, differenziazione territoriale degli importi: non possono ricevere tutti la stessa cifra in ogni area del paese. Così non si buttano via soldi che è la prima esigenza. Se ne viene fuori un risparmio, lo si metta sulla vera ricostruzione. A cominciare dall'obiettivo “serrande su”.

 

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