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Scandalo Whirlpool a Napoli, Paragone inchioda la multinazionale e il governo

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Scusate se parliamo di lavoro. Specie al Sud. Lo facciamo al netto delle polemiche che riguardano il reddito di cittadinanza, un esperimento sicuramente da rivedere per evitare che le buone intenzioni siano cancellate dai cattivi comportamenti, specie da parte di chi avrebbe dovuto far incrociare domanda e offerta.

 

Venerdì pomeriggio ho fatto visita alla fabbrica di Napoli della Whirlpool, gruppo multinazionale che conosco per la mia attività di parlamentare in commissione Industria ma anche perché lì dentro ci sono pezzi di una grande storia industriale partita dalla mia provincia, Varese, e arrivata anche in Campania, la Ignis del «cumenda» Giovanni Borghi.

I lavoratori della Whirlpool di Napoli sono «prigionieri» di un inganno prodotto dalle logiche multinazionali e dalle bugie di una classe dirigente (gli ultimi i grillini che qui presero il 70% dei voti) che ha svenduto i lavoratori, preferendo i nuovi padroni. Che tali sono nel momento in cui scaricano sui lavoratori le incapacità dei propri manager: già, perché alla Whirlpool di Napoli i lavoratori valgono molto di più di tanti colletti bianchi che non sanno distinguere una lavatrice da un microonde. 

 

Eppure, a casa, rischiano di finirci loro, i lavoratori. Lavoratori (quelli di Napoli) che nel 2012 venivano premiati come i più bravi a fare le lavatrici, tra tutte le fabbriche che Whirlpool ha al mondo. Lavoratori capaci di stare sul mercato dell’alta gamma, fascia di mercato che la multinazionale aveva individuato per loro nel 2018, proprio per ottimizzare un impianto dal grande valore tecnologico; lavoratori premiati con tutte le migliori certificazioni: di ecosostenibilità, di efficienza energetica, di sicurezza sul lavoro e di qualità del prodotto (un premio dato dai tedeschi, pensate un po’…). Per non dire dell’alta percentuale di lavoratrici: il 60 per cento della forza lavoro è donna. 

Insomma, a Napoli c’è eccellenza. Eppure i 330 lavoratori (senza considerare un indotto di altri 500, 600) rischiano di restare a casa, perché alla Whirlpool i «capoccia» fanno i furbetti. Con la complicità di un governo che, dopo aver girato contributi pubblici, non ha ancora avuto il coraggio di prendere per il bavero i veri incapaci di questa storia e ordinare loro che a Napoli non si chiude un bel niente. Soprattutto dopo quel che lo Stato ha dato a lor signori.

 

Chiudere Napoli non significa soltanto offendere l’eccellente qualità che questi lavoratori hanno dimostrato sul campo, ma significa anche alimentare le difficoltà occupazionali in un’area dove tutto serve tranne che licenziare. Insomma, sarebbe una ingiustizia e l’acutizzazione di un dramma sociale. A fronte dell’ennesima morale per cui i grandi arrivano e se ne vanno dopo aver depredato in nome dei profitti. Il vecchio cumenda varesino Borghi arrivò a Napoli con la testa del vero imprenditore, ecco perché nello stabilimento campano conservano le sue fotografie. I Borghi investivano, pagavano i lavoratori e guardavano alla domanda interna, esercizio che sfugge alle multinazionali.

Una fabbrica così non può essere replicata in nome delle delocalizzazioni: ha un cuore e una generosità unici. «Gli operai della Whirlpool di Napoli lavorano da sette anni con l’orario ed il salario ridotto per salvare l’azienda - mi hanno raccontato i lavoratori - E come ci ripaga Whirlpool? Scappando senza dare spiegazioni. La nostra non è solo una nostra battaglia, ma è "la" battaglia». Le cui insegne campeggiano sui muri e sulle magliette che si son fatti: «Whirlpool, Napoli non molla».
 

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