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Conte si scontra con Casaleggio ma il suo vero obiettivo è far cadere Draghi

Riccardo Mazzoni
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Ha qualcosa di surreale il duello Casaleggio-Conte andato in scena ieri attraverso due interviste incrociate dopo la separazione ufficiale della piattaforma Rousseau dal Movimento. Entrambi infatti hanno l’obiettivo di recuperare i cosiddetti duri e puri, i cui capataz hanno riscoperto il valore delle origini dopo aver perso posti di governo o comunque potenziali quote di potere con l’avvento di Draghi. Ed entrambi hanno il premier nel mirino, come conferma l’interpretazione autentica data dal Fatto quotidiano nel titolo di apertura: «Conte, prime sfide a Draghi». Perché nonostante i toni ecumenici e i poco convincenti attestati di fedeltà, nella testa dell’avvocato del popolo frulla eccome l’idea di far uscire i Cinque Stelle dal governo una volta varcata la soglia del semestre bianco, ad agosto, nel tentativo di scongiurare un nuovo bagno di sangue elettorale alle amministrative d’autunno. In mezzo a questa contesa sorda troneggia Di Battista, il convitato di pietra delle ultime convulsioni grilline, che dal finto Aventino in cui si è ritirato continua a cannoneggiare il quartier generale attestandosi sulla confortevole trincea del no a tutto, pur dichiarando lealtà a Conte: fino a che il Movimento sosterrà «il governo della Confindustria», lui starà sempre dall'altra parte della barricata, giudica sbagliata l’alleanza strutturale col Pd ma esclude anche un ritorno all’alleanza con Salvini.

 

Insomma, l’unica rotta percorribile è quella del ritorno allo splendido isolamento, senza se e senza ma, acuendo così la faglia tra nostalgici e ministeriali: un caos molto poco calmo dal quale emergono ad una ad una tutte le contraddizioni del grillismo di lotta e di governo, e l’incognita ora è se e in che misura l’avvocato del popolo sarà in grado di gestirle. A partire dal totem dei due mandati, sul quale non ha mai preso una posizione netta, e su cui Casaleggio ha buon gioco a fare la voce grossa, ben sapendo di toccare un tasto caro alla maggioranza silenziosa dei gruppi parlamentari. «Il modello del M5s ha dato la possibilità a migliaia di cittadini sconosciuti, come lo stesso Giuseppe Conte, di rivestire ruoli prestigiosi e di potere impensabili» – ha sentenziato, e non è stato un riflesso di autocoscienza per i danni irreparabili causati dall’uno-vale-uno alla credibilità della politica, ma una orgogliosa e incredibile rivendicazione del passato nei confronti di chi oggi, invece, «vuole dare questa possibilità a persone ben definite». Un tragico vulnus – quello di un casting che ha fatto vincere a una schiera di incompetenti il biglietto della lotteria Parlamento - trasformato in un vanto, dunque, senza uno straccio di autocritica. In questo la sintonia con Di Battista è totale, additando i poteri forti come i responsabili della fallita rivoluzione grillina.

 

Una lettura da cui, almeno ieri, Conte si è sottratto negando l’ipotesi di un complotto internazionale per disarcionarlo da Palazzo Chigi e prendendo apparentemente le distanze da Travaglio, che sul Conticidio ha scritto perfino un libro, ma il veleno sparso tra le righe contro Draghi ha fatto comunque trapelare ostilità e disappunto, imputandogli ad esempio l’«emarginazione» dell’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione che lui, da premier, lasciò per oltre un anno senza presidente. E rivendicando il «lavoro straordinario di Arcuri», oggetto di «critiche ingenerose e spesso strumentali», come se il teorico delle Primule non fosse stato umiliato dal successo del piano vaccinale di Figliuolo.

 

I prossimi mesi ci diranno se il Movimento sopravvivrà a sé stesso, se nascerà un Contromovimento dei fuoriusciti e cosa farà Di Maio. Ma intanto l’unica verità l’ha detta Casaleggio: «Quando i principi di una comunità sono oggetto di trattativa economica si entra nella fase di liquidazione». Appunto.

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