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SuperMario e Parolin sono pazzi per Giorgia Meloni

Luigi Bisignani
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Caro direttore, tutti pazzi per Giorgia dunque. Due uomini di Stato, uno in tonaca color porpora e l’altro in blu, provano entrambi ammirazione per la stessa donna: la Meloni, ovvero la «piccola Evita», (copyright Maurizio Gasparri). I due sono il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, che di recente si è intrattenuto a lungo con la leader di Fratelli d’Italia, e il premier Mario Draghi, che la trova non solo coerente ma anche simpatica, oltre ad avere il pregio di essere, come lui, tifosissima della Roma. Parolin conta su Giorgia per poter bloccare il disegno di legge Zan sull’omofobia, mentre Draghi è consapevole che con la palla Giorgia in mano gli potrebbe riuscire all’occorrenza un bello strike, abbattendo in un colpo solo quel poco che resta dei 5 Stelle, Matteo Salvini e l’inconsistente Enrico Letta. La Meloni, «ducetta» per i nemici, accetta di buon grado sia le lusinghe del porporato, che potrebbe aprirle le porte di un mondo cattolico allo sbando, sia quelle del premier, utilissimo per facilitarle i rapporti nelle ancora diffidenti cancellerie europee.

 

 

 

Draghi, dal canto suo, sa bene che per salire al Colle con un consenso amplissimo che gli garantisca un settennato imparziale non potrà fare a meno dei voti della destra. Anche se, ogni giorno che trascorre in quel vellutato manicomio di Palazzo Chigi, con ministri in continua lite sotterranea tra loro, più che sul Quirinale SuperMario comincia a pensare che gli convenga puntare su Washington: Fondo Monetario o, in alternativa, Banca Mondiale. Più dollari meno grane.

La Meloni per diventare la prima donna Presidente del Consiglio deve tuttavia modificare il passo - un passo, sia ben chiaro, fino ad oggi ineccepibile. Plasmare il partito a sua immagine e somiglianza basato sul «one-woman show», annullando in pratica tutte le donne con la sola eccezione di Patrizia Scurti, ricevuta in dote da Gianfranco Fini, è stato senza dubbio l’unico modo per offuscare quelle che i detrattori considerano le ombre della sua militanza nella sezione più nera del Fronte della Gioventù di Colle Oppio. Ora però per Giorgia è venuto il momento di accantonare di essere cresciuta con i camerati «gabbiani» e di diventare finalmente un’aquila che vola alto nei cieli. La «Calimera» del vecchio FdG deve dare un gran colpo d’ali per convincere che con lei è iniziato davvero un nuovo corso accompagnato da una nuova classe dirigente. Volare nei sondaggi infatti non basta.

 

 

 

Se oggi, ad esempio, le chiedessero a bruciapelo sulla squadra di ministri di un suo futuro governo, la risposta molto probabilmente ricadrebbe su dei Carneadi fedelissimi come Donzelli, Montaruli o il giustizialista Delmastro. Ben lontani dai livelli di Tremonti, Fisichella, Urbani e Martino di berlusconiana memoria. La verità è che nell’attuale apparato di Fratelli d’Italia per ora non trova spazio una classe dirigente di riferimento, nonostante nel bel libro, «Io sono Giorgia» la stessa affermi «quanto contino i burocrati e quanto sia importante sapere dove sono nascosti i gangli del potere». Ma verso questo potere, che in questi mesi le è sempre più vicino e che lei ascolta con genuino interesse, c’è quella ritrosia che rende difficile la creazione di una squadra sulla quale contare, come quella che anni fa, ad esempio, Francesco Rutelli lanciò con successo con i 300 manager per Roma. E non basta certo affidarsi alle cure dell’amato «Spugna», alias Giovan Battista Fazzolari, diventato il suo guru prediletto, che però, con le sue logiche complottistiche e scettiche sul libero mercato, rischia solo di farla allontanare dal mondo liberale. Fazzolari sta soppiantando nel cuore della Capa di Fratelli d’Italia Fabio Rampelli, destinato, a quanto pare, a correre per la Regione Lazio, visto che nella Capitale, Giorgia, «romana de Roma» cresciuta alla Garbatella, non solo non vuole metterci la faccia, ma neppure piazzare qualcuno che la gente identifichi con lei.

Ma se non lancia una «fase due» del suo partito, allargandolo davvero ad esponenti della società civile (commis d’état, manager, magistrati, uomini di scienza e cultura ecc.) anche attraverso un centro studi qualificato, non riuscirà a fare un salto di qualità nel grande palcoscenico internazionale, dove la presidenza dei Conservatori europei, che significa più Londra che Bruxelles è un passo non sufficiente agli occhi delle tre capitali che contano: Berlino, Parigi e, soprattutto, Washington. Continuare a ripetere «Prima l’Italia» è oggi un refrain che sa di anticom: tutti i grandi leader politici del Bel Paese hanno sempre privilegiato l’Italia, collocandola però in una cornice chiara di rapporti internazionali autenticamente «atlantici». E proprio al Dipartimento di Stato Usa non hanno certo gradito l’apertura verso i vaccini russi e, ancora meno, l’aver insistito per il Copasir su Adolfo Urso, un galantuomo amato un po’ troppo a Teheran, anziché puntare su personalità come Tommaso Foti e Alessio Butti, ben visti peraltro anche da Salvini col quale, tuttavia, la disputa fratricida, oltre che dannosa, sta diventando anche un po’ ridicola. A Giorgia, per continuare a volare, serve un po’ meno «boia chi molla» e un po’ più Biancofiore, intesa come scuola di aggregazione DC che potrebbe attirare a sé anche parti di Forza Italia e di quel centro che comunque non riesce ad emergere e che apprezza in lei la coerenza assoluta rispetto a questi governi retti da accozzaglie contro natura. Del resto, il tempo per diventare meno «Ducetta» e più Regina di Cuori c’è tutto.

 

 

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