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Svelata l'ultima balla, l'Italia vaccina meno degli altri

Dario Martini
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«L’Italia è uno dei Paesi migliori nella campagna di vaccinazione contro il Covid». Questa frase viene sempre ripetuta da chi loda l’efficienza della macchina messa in piedi dal ministro della Salute Roberto Speranza e dal commissario all’emergenza Domenico Arcuri. Per sbandierare questo risultato viene sottolineato il numero totale delle dosi somministrate, che ha raggiunto quasi quota 3,8 milioni. Nell’Unione europea siamo dietro solo a Francia (quasi 3,9 milioni) e Germania (5,4 milioni), che però hanno una popolazione maggiore della nostra. Quindi, è il ragionamento di chi sta al governo, è vero che avremmo potuto fare di più, ma se così non è stato la colpa è delle case farmaceutiche che hanno ridotto le consegne.

Eppure, se leggiamo bene i dati, scopriamo che le cose non stanno affatto così. L’Italia, infatti, in rapporto al numero complessivo della popolazione sta vaccinando molto meno degli altri. Nella classifica che tiene conto dei 27 Stati membri della Ue il nostro Paese si piazza ad un poco gratificante diciottesimo posto. Di poco sotto la media europea. E ogni giorno che passa perde posizioni.

 

 

I dati parlano chiaro. Sono quelli ufficiali, diffusi dai governi ed elaborati dal sito di statistiche e ricerche "Our World In Data", piattaforma sviluppata da ricercatori dell’Università di Oxford. Vengono prese in esame le dosi somministrate di vaccino ogni cento persone nei 27 Paesi dell’Unione. I numeri aggiornati al 23 febbraio raccontano che l’Italia è diciottesima su ventisette, con 6,12 dosi ogni cento persone. La media Ue è di 6,25. Meglio di noi la Germania (6,41), la Spagna (6,77), l’Ungheria (7,04) e la Polonia (7,92). Prima in classifica è Malta (15,02), anche se fa poco testo, perché con il suo mezzo milione di abitanti non può essere paragonata agli altri Stati. Al secondo posto, invece, c’è la Danimarca, che ha somministrato 8,82 dosi ogni 100 persone.

 

 

Il rallentamento nella nostra campagna di vaccinazione è evidente se ripercorriamo il calendario a ritroso. Una settimana fa, il 16 febbraio, era diciassettesima, il 9 febbraio era nona, il 2 febbraio ottava. Il 15 gennaio era sesta, il 6 gennaio addirittura quarta. Significa che il nostro Paese era partito col piede giusto rispetto agli altri partner europei, per poi perdere terreno strada facendo. La scusa del taglio delle dosi non può reggere, perché fino a prova contraria le aziende farmaceutiche si sono comportate allo stesso modo con i Paesi appartenenti all’Unione. Possono aver privilegiato Stati extra Ue, come la Gran Bretagna, ma questo è un altro discorso. Il Regno Unito, grazie alla Brexit, è partito l’8 dicembre, tre settimane prima. Il distacco è già abissale, con 27,34 dosi ogni 100 abitanti per un totale di 18 milioni di iniezioni già fatte. Anche se Londra ha scelto una strategia differente, rinviando la data del richiamo e puntando a coprire con la prima dose il maggior numero possibile di cittadini britannici.

È di martedì la notizia che AstraZeneca nel secondo trimestre ridurrà della metà le forniture alla Ue. Anche se ieri la multinazionale anglo-svedese ha garantito all’Italia l’arrivo di 5 milioni di dosi entro fine marzo. La speranza, quindi, è di recuperare il terreno perduto. La strategia negli ultimi giorni è cambiata. Abbandonato definitivamente il faraonico progetto delle «Primule» (i padiglioni temporanei ideati da Arcuri), si stanno iniziando ad aprire centri per le vaccinazioni ovunque possibile: fiere, auditorium, centri congressi e spazi non utilizzati negli aeroporti. Il ministro Speranza, proprio ieri in Parlamento, si è detto sicuro di un’imminente accelerazione. Anche perché diciassette posizioni da scalare sono tante.

 

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