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Recovery fund, il veto di Ungheria e Polonia rivela la vera faccia dell'Ue

Trattati e regole vanno cambiati. Ma l'Italia non può dipendere dai fondi comunitari

Angelo De Mattia
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Il 10 dicembre quando si terrà di nuovo la riunione dei capi di Stato e di Governo europei, si riuscirà a superare l’impasse di fronte a cui ci si trova in conseguenza dell’opposizione di Polonia e Ungheria alla ratifica dell’accordo sul «Recovery Fund», agendo sulle risorse da mettere a disposizione per il bilancio comunitario pluriennale?

Nella stessa giornata del 10 si riunirà il Consiglio direttivo della Bce che dovrebbe decidere di rafforzare e ampliare le misure non convenzionali di politica monetaria, anche in relazione alle nuove stime economiche che saranno rilasciate nella stessa occasione.

 

La Banca, dovrebbe, però, avere di fronte a sé un quadro stabilizzato delle politiche europee che per ora appare assai incerto.

I due Stati, ai quali si aggiungerebbe la Slovacchia, contestano la condizionalità all’osservanza delle regole dello Stato di diritto a cui sarebbe sottoposta l’erogazione delle risorse del «Recovery Fund» e negano il loro voto, necessario per soddisfare l’obbligo dell’unanimità dei partner europei. Si pensa di poter lavorare in questi giorni che ci separano dal 10 per tentare una mediazione. Il fatto è che l’Unione non può tornare indietro dopo avere considerato «condicio sine qua non» l’ottemperanza ai principi e alle regole anzidetti. Sarà possibile un «escamotage» dialettico che ammorbidisca il significato di tale osservanza? Potrebbe risultare una pezza peggiore del buco.

Potrebbe prevedersi, in alternativa, una sanatoria relativa alle procedure di infrazione in precedenza avviate per violazioni di tali norme, una specie di condono prima di passare a un maggiore rigore di più sicura applicazione? Forse, anche se la sanatoria difficilmente riscuote applausi generalizzati, soprattutto se si ha presente, come i sondaggi segnalano, che la netta maggioranza dei cittadini dei suddetti Paesi è favorevole all’osservanza delle norme in questione, che del resto sono alla base dell’Unione, e alla condizionalità dei fondi comunitari.

Forse, però, potrebbe incidere di più lo spauracchio del ricorso all’esercizio provvisorio del bilancio pluriennale che non si riuscisse ad approvare entro il 31 dicembre con la conseguenza delle minori risorse disponibili pure da parte di Ungheria e Polonia.

Ma questa vicenda segnala che vi è molto da rivedere nei meccanismi istituzionali europei e negli stessi Trattati sul modo in cui si formano le decisioni e si controlla. L’Unione non può essere la sede dell’assoluta centralizzazione delle misure riguardanti l’area, ma neppure può essere la mera registrazione delle posizioni nazionali fino all’esaltazione del potere di veto.

 

D’altro canto, per una Unione tutt’ora in mezzo al guado, questa oscillazione tra due estremi ne è la conseguenza per cui si contrasta sia la centralizzazione totalizzante (ed è giusto) sia il principio di sussidiarietà (ed è sbagliato). Ma da questa vicenda scaturisce anche un implicito monito per l’Italia. Il governo, per le sue decisioni, non può dipendere «in toto» dai fondi europei in questione sia per il loro ammontare, sia per i tempi della erogazione. Occorre che esista pure un’alternativa valida – non di mera appostazione di cifre in bilancio – per l’eventualità che l’impasse si confermi, ma anche per l’ipotesi di uno slittamento della disponibilità delle risorse dovuto solo alle procedure tecnico-amministrative. Oltretutto, la subordinazione, sia pure in parte, della manovra di bilancio alle decisioni europee sul «Recovery» rafforza indirettamente il potere negoziale dei due Paesi dissidenti. Insomma «ex malo bonum», dalla posizione di questi ultimi, negativa e inaccettabile, scaturisce una sferzata anche per l’Italia perché si premunisca con l’impiego delle proprie forze per scelte alternative, sia pure nella speranza di poter fruire delle risorse del «Recovery Fund».
 

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