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Qualsiasi cosa fa sbaglia. Covid tomba politica di Conte

Riccardo Mazzoni
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Il Covid finora è stato l’elisir di lunga vita di Conte, ma si avvia a diventare la sua tomba politica. Sta resistendo come un leone ferito alle sollecitazioni sempre più pressanti che gli arrivano dai governatori e da almeno metà della sua maggioranza, che invocano un cambio di passo prima che la situazione precipiti definitivamente. Ma la situazione, in realtà, è già sfuggita di mano, insieme all’epidemia fuori controllo, e il premier si trova ormai davanti a scelte tanto improcrastinabili quanto perdenti.
Se decide di prendere ancora tempo, i contagi continueranno a crescere in modo esponenziale, ma i pronto soccorso erano già ieri al collasso; se allarga a tutto il Paese il coprifuoco già in vigore in alcune regioni, magari a partire dalle 20, significherebbe infliggere un altro durissimo colpo a commercio, turismo e ristorazione, con la chiusura – stima Confesercenti – di altre ventimila attività produttive, portando da 90 a 110mila le cessazioni previste per quest’anno; se, infine, spinto dalla drammaticità degli eventi, sarà costretto a varare un nuovo lockdown nazionale, che certificherebbe il fallimento del suo governo, un minuto dopo aver firmato il nuovo Dpcm avrebbe il dovere politico e morale di prendere la strada del Colle per rassegnare le dimissioni.

Come si vede, qualunque decisione assumerà, Conte si infilerà dritto in un vicolo cieco, perché o si lascerà che il Covid porti alle estreme conseguenze il disastro sanitario, o si decreterà la fine della comunità nazionale come realtà economica di prim’ordine, aumentando di milioni i poveri assoluti, nemesi disperante per chi aveva annunciato l’abolizione della povertà. Chi è stato causa di questa tempesta perfetta, insomma, non ha più la credibilità, ma soprattutto la dignità, di tenere ancora in mano il timone del Paese. La narrazione paternalistica ispirata da Casalino non funziona più, come le conferenze stampa e i consigli dei ministri celebrati col favore delle tenebre: arriva sempre il momento in cui la realtà prende il sopravvento sulle suggestioni e sulle martellanti campagne di televisioni asservite e di una grande stampa troppo spesso prona e fiancheggiatrice. Il popolo dei non garantiti ha retto, sia pure con difficoltà e sofferenze indicibili, alla prima onda d’urto della pandemia, ai sussidi mai arrivati e alle casse integrazione in ritardo e a singhiozzo, ma sta per presentare il conto, e il germe del ribellismo rischia di dilagare, con gli agitatori di professione in agguato.

 

 

C’è una letteratura ponderosa su quanto il governo, nonostante lo stato d’emergenza perenne, i connessi pieni poteri e le pletoriche task-forces di esperti o presunti tali, è riuscito a non fare in sette mesi, dalle terapie intensive ai trasporti, dalla medicina territoriale alla scuola. E il tentativo finale di scaricare i lockdown sulle spalle di governatori e sindaci, colpevolizzando il comportamento dei cittadini e autoassolvendosi per il proprio operato, è miseramente fallito. Nel bunker di Palazzo Chigi ci si accorge solo ora di non avere più armi. Nemmeno quelle del Recovery Fund, sbandierate per mesi come un successo personale del premier, e impaludate nelle snervanti contrattazioni comunitarie: saranno infatti erogate non subito, ma in molteplici rate a far data con un primo 10% (forse) a metà 2021, solo dopo una puntigliosa verifica dei risultati conseguiti e con condizionalità sicuramente peggiori di quelle generiche previste per il Mes, che almeno ha il pregio di vedere le somme anticipate e per una destinazione utile al Paese come il rafforzamento del sistema sanitario nazionale. Questo è il bilancio di un anno terribile, con il Paese in mano a una compagnia di giro abbarbicata al potere, che ha approfittato del Covid per consolidarlo e ora se lo ritrova improvvisamente davanti come un implacabile convitato di pietra. È davvero l’ora di togliere il disturbo.

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