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Matteo Salvini, le giravolte grilline e il caso Palamara: ecco perché è un processo politico

Riccardo Mazzoni
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Il caso Gregoretti è la fotocopia del caso nave Diciotti (il primo risale a luglio del 2019, il secondo all’agosto 2018). Come la Diciotti, infatti, anche la Gregoretti è una nave militare italiana. L’equipaggio della Gregoretti aveva salvato in mare 116 persone ma, come era avvenuto per la Diciotti, non le era stata data la possibilità di attraccare ed era quindi rimasta per giorni fuori dal porto di Augusta. In entrambi i casi, Salvini ha sempre giustificato il trattenimento dei migranti a bordo delle navi militari come una forma di pressione per costringere l’Ue a muoversi per i ricollocamenti: una strategia in parte vincente, dato che in entrambi i casi la situazione si era poi risolta quando alcuni Paesi europei e la Chiesa cattolica si erano resi disponibili ad accogliere i migranti a bordo delle navi.

Due fattispecie uguali, quindi, ma con diversa conclusione, perché i Cinque Stelle una volta (caso Diciotti) si sono opposti al processo per Salvini, l’altra (Gregoretti) hanno invece mostrato il pollice verso contro l’ex alleato. Eppure Salvini ha dimostrato, producendo anche sette mail scambiate tra funzionari del gabinetto della Farnesina e di Palazzo Chigi, che il premier e gli altri ministri coinvolti nella gestione dei migranti erano sempre stati messi a conoscenza delle mosse del Viminale, peraltro in perfetta coerenza con la politica dei “porti chiusi” concordata nel programma del governo gialloverde.

Basta scorrere i resoconti parlamentari per smascherare la schizofrenia grillina ora spacciata per coerenza. Il senatore Giarrusso, allora una delle punte di diamante del Movimento, prese la parola in aula sul caso Diciotti – era il 20 marzo 2019 - per dire che “è dal 2014 che noi contestiamo i folli Trattati sottoscritti prima del nostro arrivo in Parlamento e che facevano sì che chi sbarcava in uno Stato diventasse e rimanesse problema di quello Stato e non sbarcasse in Europa. Noi abbiamo sempre detto, dal 2014, che chi sbarca in Italia sbarca in Europa. Il Presidente Conte è andato a dire questo a giugno, prima che arrivasse la nave Diciotti in Europa, con l'autorevolezza di una fortissima legittimazione popolare. È questo che il ministro dell'Interno ha perseguito, impedendo per quattro giorni lo sbarco dei migranti nel porto di Catania, sbarco che avrebbe determinato l'immediata applicazione di quei Trattati che noi contestiamo da sempre”. Per poi concludere: “Questa è la prima volta che un ministro può legittimamente venire nell'aula del Parlamento a rivendicare un'azione compiuta a nome del governo. Poi possiamo considerarla o no idonea ma è e resta, com'è stato chiaramente indicato nelle memorie del Presidente del Consiglio, del vice Presidente Di Maio e del Ministro Toninelli, un'azione di governo condivisa e portata avanti legittimamente”.

Una totale assunzione di responsabilità, quindi, poi platealmente smentita dall’intervento sul caso Gregoretti, il 30 luglio di quest’anno, dalla sua ex collega di partito Evangelista, cognomen omen, visti i toni accorati della sua presa di distanze da Salvini in nome dell’accoglienza indiscriminata: “L'allora ministro dell'interno Matteo Salvini – scandì indignata - con un grave comportamento assunto autonomamente e non condiviso dalla restante compagine governativa, in aperta violazione delle norme di diritto internazionale e dei princìpi di rango gerarchico superiore che impongono agli Stati firmatari l'obbligo di salvare le vite in mare, trattenne illegittimamente le persone a bordo, negando loro lo sbarco per un suo convincimento politico che non può assurgere a preminente interesse pubblico dello Stato e dei suoi cittadini e per questa ragione dovrà essere sottoposto a procedimento penale davanti all'autorità giudiziaria”.

Un contrordine che stride con la logica, con il buonsenso e con il comune senso del pudore, ma che è stato anche il canovaccio su cui si è mossa la magistratura. Come mai, infatti, ci sono state tre domande di autorizzazione a procedere su fatti palesemente collegiali, e in tutte e tre le domande si è chiesto solo di processare Salvini? Nel caso Diciotti il premier e alcuni dei ministri competenti decisero addirittura di presentare delle memorie per dire di aver partecipato collegialmente ai fatti e di sentirsi di sposare l'operato di Salvini, come a dire: “Processate anche noi”.

Negli altri due casi non ci sono state analoghe memorie, ma ampie dichiarazioni pubbliche poi ritrattate quando è cambiato governo. Eppure, nulla. Ma c’è di più: il governo rossogiallo ha sposato la politica dei porti spalancati, ma con qualche significativa eccezione. L'Ocean Viking, ad esempio, fu bloccata in mare per undici giorni alla vigilia delle elezioni regionali in Umbria, e nel gennaio scorso, a pochi giorni dalle regionali in Emilia Romagna, la stessa nave con 403 migranti a bordo attese quattro giorni prima di avere l'ok allo sbarco, ma nessuna Procura ritenne di dover intervenire.

Dunque: il sequestro per difendere i confini è reato, il sequestro per fini elettorali invece no. E allora non possono che tornare alla mente le parole del procuratore capo di Viterbo Auriemma nella conversazione intercettata con l’allora presidente dell’Anm Palamara: “Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando: illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell'Interno interviene perché questo non avvenga e non capisco cosa c'entri la procura di Agrigento. Sbaglio?”. E la risposta di Palamara: “No, hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo”. Ecco: questo dovrebbe bastare per inquadrare il processo che si apre oggi a Catania contro Salvini: un processo politico.

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