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La finta democrazia di Conte

Pietro De Leo
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Settimane e mesi a parlare sulla necessità di una condivisione politica delle scelte relative al Covid, sull’importanza del ruolo del Parlamento, a stigmatizzare quell’appeal pseudomonarchico dei Dpcm. E gli ultimi giorni, poi, con la pubblicazione di quei verbali del Cts che hanno dimostrato come il Presidente del Consiglio Conte abbia compiuto, relativamente al lockdown, una scelta addirittura più stringente di quelle consigliate dagli uomini di scienza che componevano l’organismo. Parole buttate. Rimangono in piedi scettro, trono, piedistallo. E soprattutto il Dpcm. L’ennesimo, annunciato a tarda sera, peraltro, nel venerdì in cui le vacanze entrano nel clou, e proprio mentre (bypassando con un triplo salto mortale l’additamento dei contagi portati dal flusso migratorio), il governo punta il dito sui comportamenti dei giovani. Con il caldo e, oggettivamente, pure «il favore delle tenebre», espressione che tanto faceva inalberare l’augusto inquilino di Palazzo Chigi.

L’ennesimo Dpcm, dunque, firmato poi il giorno dopo, a testimonianza di quanto sia ancora ben viva quella cappa accentratoria divenuta ossatura del potere dall’inizio della pandemia.

Nel merito, il provvedimento proroga fino al 7 settembre le misure precauzionali minime. Dunque rimane la regola del distanziamento sociale così come l’obbligo di indossare le mascherine al chiuso. Il testo prevede poi la norma dell’assenza di pubblico per lo svolgimento delle gare sportive. Le attività di centri benessere, di centri termali, di centri culturali e di centri sociali sono permesse a condizione che le regioni e le province autonome abbiano preventivamente accertato la compatibilità del loro svolgimento con l'andamento della situazione epidemiologica. Insomma, norme sulla nostra vita sociale e individuale.

Contenuti a parte, quel che emerge è la dinamica politica di tutto questo. Ossia che, di fatto, tutti i discorsi pronunciati sul ruolo delle Camere vanno a farsi benedire. Ricordiamo un Presidente Conte, durante un’informativa al Senato dello scorso 21 aprile, focalizzare la «consapevolezza della necessità di coinvolgere il Parlamento tanto più in una fase in cui l’azione di governo rileva direttamente sui beni primari della persona». E ricordiamo persino una mozione in cui i partiti che sostengono il governo, stante la profusione di Dpcm, chiamavano il governo ad un impegno chiaro. Ossia a «privilegiare lo strumento del decreto legge», e in ogni caso, ad «illustrare preventivamente alle Camere il Contenuto» dei Dpcm qualora siano adottati. Qualora, per ragioni di urgenza, non fosse stato possibile compiere l’illustrazione preventiva del provvedimento, allora la mozione chiedeva di riferire alle Camere sulle decisioni assunte. Ovviamente, nulla di tutto questo è avvenuto né avverrà nei prossimi giorni. E si perdono nell’antologia di questi mesi anche le parole di Matteo Renzi, leader di Italia Viva, pronunciate lo scorso 6 maggio: «Bisogna smetterla con i dpcm. Il dpcm impatta sulle libertà personali». Siamo ancora fermi a quella logica che scaturisce nella lista di «consentiamo» con cui Conte, in diretta televisiva, contestualmente all’ennesimo Dpcm avviava la fase due, oramai oltre tre mesi fa. Un Paese in cui lo svolgimento delle libertà personali appare «octroyé», ossia concessa. Termine che gli studenti di diritto costituzionale ben conoscono, a indicare la Costituzione francese del 1814 concessa dal sovrano. La spettanza ordinaria, di fatto, è ancora frutto di una sorta di beneficio calato dall’alto. Accade questo, in quest’Italia così strana, dove si lincia chi appena evoca (peraltro utilizzando una frase infelice) i pieni poteri, ma si santifica chi se ne appropria. Nel contorno di un’assuefazione generale, anche da gran parte del mondo politico, che preoccupa ancora di più.

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