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Salvini a processo, la politica si è definitivamente arresa a una magistratura screditata

Riccardo Mazzoni
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Decidendo di mandare a processo il senatore Salvini per il caso Open Arms, la maggioranza rossogialla ha compiuto l’ennesimo atto di sottomissione del Parlamento alla magistratura, certificando così che la politica migratoria spetta alle procure e non ai governi della Repubblica. Nulla di nuovo sotto il cielo delle sinistre vecchie e nuove - soprattutto di quelle che si autoproclamano garantiste - che conoscono solo l’uso politico della giustizia e il peggior trasformismo come strumenti per sconfiggere gli avversari politici, si chiamino Berlusconi oppure Salvini. E in questo senso i pentimenti postumi di Renzi manifestati ieri nell’aula del Senato sulla sentenza della Cassazione che estromise il Cavaliere dal Parlamento assomigliano molto a uno sberleffo che non cancella il “game over” pronunciato allora.

Siamo in una contingenza particolare in cui la magistratura, ancora in mezzo alla palude dello scandalo Palamara, sarebbe chiamata a curarsi ferite profonde, e invece si sta di nuovo chiudendo a riccio nella difesa dei suoi interessi corporativi, con un ministro della Giustizia totalmente al servizio del partito delle procure.

Per il bene della democrazia, dunque, sarebbe il momento di riaffermare con più forza di sempre il principio fondamentale della separazione dei poteri e del primato della politica, che non ha più lo scudo costituzionale dell’articolo 68, ma che non può rimanere ostaggio della magistratura interventista e di un orologio giudiziario che si aziona puntualmente in prossimità delle elezioni. Ebbene: invece della riscossa, dal Senato ieri è arrivato un altro segnale di resa. Il quesito “politico” era quello accennato all’inizio: la gestione dei flussi migratori spetta ai governi o alle Procure? Il Senato non era chiamato a pronunciarsi sull’esistenza del reato di sequestro di persona, e nemmeno se sull’operato di Salvini siano stati raccolti sufficienti indizi per mandarlo a giudizio, ma solo stabilire se da ministro dell’Interno agì “per il perseguimento di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante”, e questa garanzia non è conferita alla persona, ma all’incarico ricoperto, e quindi non è in alcun modo rinunciabile. 

Quando esplose il caso Diciotti, Salvini spiegò infatti che non si era di fronte a un potenziale reato commesso da un leader di partito, ma di una decisione che poteva essere presa solo da chi ricopriva un incarico di governo, e quindi si doveva applicare la speciale procedura prevista dall’articolo 96 della Costituzione. L’allora ministro dell’Interno affermò, appunto, di aver agito in nome di un “preminente interesse pubblico”, e il Senato gli diede pienamente ragione, con il premier e i ministri Cinque Stelle che addirittura si autoaccusarono pubblicamente, rivendicando orgogliosamente la condivisione della scelta di bloccare 177 migranti a bordo di una nave militare italiana. Era stato un atto politico e dunque insindacabile.

 Poi, cambiato governo, Conte e i grillini sono invece diventati i più implacabili accusatori dell’ex alleato, e prima sulla vicenda Gregoretti e ieri sulla Open Arms hanno indicato il pollice verso, con evidente sprezzo del ridicolo. Se fossimo in un Paese normale, Salvini avrebbe buon gioco a dimostrare che anche per i migranti della Open Arms la decisione fu collegiale, e ha già annunciato che chiamerà Conte come correo davanti ai magistrati siciliani.

L’Italia purtroppo non è da tempo un Paese normale, ma il voto di ieri del Senato contro Salvini è suonato ugualmente come una implicita condanna politica per Conte, Di Maio e Toninelli, sequestratori di migranti a loro insaputa e anche - in tutta evidenza - all’insaputa dei magistrati.

 Renzi nella sua brillante requisitoria di ieri, si è spinto a dire che avrebbe votato un’autorizzazione a procedere anche contro l’ex ministro Toninelli, se fosse arrivata in aula, ma si è ben guardato dal citare Conte o Di Maio, che al governo ci sono ancora, per non disturbare i manovratori. Un capolavoro di ipocrisia. L’ex Rottamatore ormai è diventato lo sceneggiatore di sé stesso: manda avanti per giorni i suoi comprimari per alimentare la suspence minacciando sfracelli in vista delle sue esibizioni in aula, e poi invece le tonitruanti bombe annunciate si trasformano sempre in innocui mortaretti di Carnevale. È successo per la sfiducia a Bonafede, e ieri ha concesso il bis. Più che un venditore di tappeti, come lo ha definito Salvini, un affabulatore di talento. Un talento sprecato.

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