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Francesco Storace, l'Epurator missino sempre fuori dal coro

Da militante nelle sedi del Movimento negli anni '70 a ministro della Salute Storace ha vissuto, sempre fedele a se stesso, tutta la storia del centrodestra

Pietro De Leo
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Immaginate quegli anni oscuri, a Roma, i ’70 di «uccidere un fascista non è reato». E una torma di militanti comunisti extraparlamentari che si approntano ad assaltare una sede missina. Esce un giovane, e fa come per prendere la mira. Gli assedianti rossi se la danno a gambe. Quel giovane che ha difeso la sua sezione è Francesco Storace. E quel che aveva in mano non era una pistola ma una custodia di occhiali da sole. È bastato il gesto, insomma, ma è stato prendersi un rischio grande così, in questo aneddoto che ha del tragico e del sarcastico insieme. Un po’ la metafora di un uomo che, vissuto sui tornanti assai complicati - e spesso dolorosi - della storia della destra italiana ha sempre ammantato con un velo di ironia passaggi oltremodo difficili. E il resto l’ha fatto la politica, capace di beffare e creare storie incredibili. Come quella della sua vittoria alle regionali del Lazio, nel lontano 2000, che segnò l’avvento di quella destra post-missina evoluta nel progetto di Alleanza Nazionale, in uno dei santuari istituzionali del territorio. Conquistare il Palazzo sulla Colombo aveva un che di sacrale, e di rivincita storica, peraltro giunta dopo una rimonta impensabile.

 

A gennaio, i sondaggi davano Storace dietro di quindici punti rispetto a Badaloni. La notte elettorale, gli exit poll continuavano a certificare lo svantaggio, seppur di pochi punti. Ma quando le percentuali potenziali furono sostituite da dati reali, ecco che la vittoria prendeva corpo, sezione dopo sezione. Per Storace segnava l’inizio di un’esperienza di governo del territorio ancora, di fatto ineguagliata. Dopo di lui, infatti, il centrodestra non è più riuscito a governare per una consiliatura intera (nel 2010, la giunta Polverini si interruppe dopo appena due anni per l’inchiesta sui fondi ai gruppi consiliari). Per l’Italia, è l’inizio del millennio con il preludio di quella che sarebbe stata la vittoria del centrodestra nel 2001 alle elezioni politiche. Andava sfumando, in dissolvenza, il quinquennio del centrosinistra, di Prodi e D’Alema, segnato anche da un braccio di ferro sulla Rai dove la gran parte dell’informazione praticava con disinvoltura la criminalizzazione di Berlusconi e il rito dell’allarme sul ritorno dei fascisti. In quegli anni, alla Presidenza della Commissione di Vigilanza era stato eletto proprio Storace, che batté al fotofinish la centrista Fumagalli Carulli. E da lì iniziò una battaglia politica contro le lottizzazioni e l’egemonia culturale rossa, che gli fece guadagnare, dal mondo politico-giornalistico engagé di sinistra, il soprannome di Epurator. Anche questo faceva parte della mostrizzazione dell’avversario cui la sinistra è ben abituata, ma tuttavia il timbro fu seppellito dalla risata di uno striscione che i militanti di Terni esposero in una convention di An: «Meglio epurator che riciclator». Ironia, ancora una volta, come quella che avvolge la sterminata antologia di battute storaciane. 

 

Si narra che, da titolare del dicastero della salute, si fosse presentato senza cravatta in Consiglio dei Ministri. Berlusconi, a quel punto, gli avrebbe donato una scatola di pregiate cravatte Marinella. E Storace, di rimando, avrebbe detto: «Preside’, la prossima volta vengo nudo». Oppure quando, nella tormentatissima campagna elettorale del centrodestra a Roma (in cui le divisioni tra alleati fecero buttar via una vittoria possibile) liquidò il tema di primarie interne con un eloquente: «Vogliono fare le "cazzarie"». Quello fu uno dei passaggi più sofferti dalla destra e dal centrodestra. Di cui Storace ha vissuto gioie e drammi. Capendoli, spesso, in anticipo. Nel 2007, non approvando la sterzata dalle sfumature liberal di Gianfranco Fini, scese dal carro di An (carro ottimo, che poi sarebbe tornato al governo), fondando «La Destra», assieme ad un altro galantuomo dei tempi che furono, l’indimenticato Teodoro Buontempo, e con un gesto vagamente dannunziano candidò Daniela Santanché presidente del Consiglio nel 2008. 

 

Uscito definitivamente assolto dal processo Laziogate, accettò poi la corsa contro Zingaretti nel Lazio nel 2013, con un centrodestra devastato dal naufragio dell’esperienza Polverini e da un clima di antipolitica che andava montando nel Paese. E di lì in poi, attraversato un altro quinquennio da Consigliere Regionale d’opposizione, ha proseguito nella battaglia delle idee. Prima alla guida del Giornale d’Italia, testata storica che per qualche anno ha riportato in vita, poi del Secolo d’Italia, testata da cui aveva iniziato. Mai dogmatico su nulla. Anzi, forse su una cosa sì: «Non fidatevi mai dell’avversario che vi sorride, soprattutto se comunista, è pronto ad azzannarvi appena può». Lo ha scritto nel suo libro, «La prossima a destra». Storace è questo qui.


 

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