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Esordio di Francesco Storace a Il Tempo: entro nel cuore della buona borghesia romana

Francesco Storace
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Evviva la buona borghesia romana. Che non ha smesso la capacità di indignarsi di fronte alle ingiustizie. Le tasse. La Monnezza. Il traffico. La delinquenza. I clandestini che comandano. Anche la vita dei romani conta. Le buche no, ormai ci siamo abituati al punto che le malediciamo solo quando non le schiviamo. Ha bisogno di tante fotografie questa nostra città che merita amore e rispetto. Il generone ne è l’anima, perché vuol dire fatica e anche la soddisfazione di sfoggiare la collezione che ci fa invaghire. Gli orologi come i soldatini. Dal commerciante all’artigiano al costruttore.

Roma va accarezzata, perché è il cuore dell’Italia e sogniamo una classe dirigente che sia capace di mobilitarsi finalmente per restituirle il ruolo che merita, a partire da un potere legislativo che deve approdare in Campidoglio, magari dopo l’epoca degli scappati di casa. Non siamo i nemici della burocrazia. Ma dei burocrati che ti fanno perdere tempo sì. Un tempo conobbi due signori in regione. Il primo mi disse questa cosa non si può fare, c’è la legge. La seconda, una straordinaria donna della sanità, mi rispose: “C’è la legge che non lo permette, ma possiamo cambiarla se serve ai cittadini”. Avercene oggi di gente così. La buona borghesia romana è quella che non sopporta più gli infiniti passaggi di pratica da un ufficio all’altro e si domanda che cosa vuol dire essere Capitale. La trovi nei negozi, questa brava gente, e nei ministeri e nei commissariati, zeppi di casi limite che vanno raccontati uno dopo l’altro. E negli ospedali. Sperando che se scrivi la verità non si incorra nel reato di lesa maestà. La Messa, la parrocchia, il prete. Il protagonismo della Chiesa è storia di Roma. Gli altari e i confessionali meritano attenzione oltre che devozione. Ci passano le mille storie di Roma Caput Mundi. Ma anche notizie tristi, che non ci piacciono e non devono essere mai sottaciute. E poi la Rai, con i suoi pettegolezzi, le sue vendette, le rivalità.

Chi parla (male) di Roma deve sapere che tutta questa roba ce l’abbiamo solo noi; e solo noi vogliamo saperla frustare e amare. Nessun altro può permettersi, a nord come a sud. Sono orgoglioso di cominciare questa avventura al fianco e un gradino sotto un direttore con i fiocchi come Franco Bechis, cronista d’eccezione, brillante come pochi. E grazie alla famiglia Angelucci per la fiducia che ha riposto anche in me. Ai tanti amici che mi hanno seguito in questi anni chiedo di continuare a farlo anche in edicola, oltre che con i clic e gli abbonamenti digitali. Il Tempo non si rafforza ulteriormente se c’è un giornalista in più, ma se tutta una squadra è capace di motivare il nostro sovrano, che è il lettore. Noi ci metteremo tutta la nostra passione per il mestiere più bello del mondo. E pazienza se ogni mattina qualcuno dovrà restarci un po’ male: ma sua maestà la notizia ci piace coccolarla, cucinarla, servirla in tutte le salse. Se non piacerà quel giorno, magari in quello successivo il sapore sarà migliore. Caro Bechis, damme er cinque.

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