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Caso Di Matteo, perché nessuno ancora indaga sullo scontro con il ministro Bonafede

Riccardo Mazzoni
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Nel derby giacobino tra Bonafede e Di Matteo ha perso solo la giustizia. In altri tempi e con altri governi una vicenda così grave avrebbe sicuramente portato alle dimissioni di entrambi, non solo per il devastante scontro istituzionale tra il Guardasigilli e un membro del Csm, ma soprattutto per la concatenazione di fatti gravissimi culminati con la scarcerazione di centinaia di mafiosi, tra cui tre o quattro usciti dal regime del 41 bis. Immaginiamoci se l'epidemia e la conseguente scarcerazione dei boss fosse avvenuta con Berlusconi a Palazzo Chigi e magari con Alfano Guardasigilli: sarebbero sicuramente saltati in aria sigilli, governo e banco nel frastuono assordante di una grancassa mediatica che avrebbe scatenato un autentico inferno giudiziario con una pioggia di gravissime ipotesi di reato, dal concorso esterno in associazione mafiosa fino all'attentato a corpo dello Stato. Invece politicamente non succederà nulla e il ministro resterà al suo posto, dopo l'ennesimo penultimatum a vuoto di Renzi, anche se Bonafede finora non ha chiarito assolutamente nulla: se sapeva, come ha detto di sapere, che i boss erano contrari alla nomina di Di Matteo a direttore delle carceri, perché non li ha sfidati mantenendo l'impegno e ci ha invece ripensato offrendogli la direzione del Dipartimento degli Affari penali, ridotto ormai a una carica poco più che onorifica, essendo stato da tempo accorpato alla Direzione affari generali del ministero? Domande che finiranno negli archivi parlamentari insieme alla mozione di sfiducia presentata dal centrodestra. L'ennesimo teatrino di questa sgangherata maggioranza. Per approfondire leggi anche: Taormina all'assalto: "Ora la verità" Ma la questione più grave è un'altra: c'è un pm e autorevole componente del Csm che getta un'ombra pesantissima – in merito alla scarcerazione dei mafiosi - sull'operato di alcuni giudici di sorveglianza, del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e dello stesso ministro della Giustizia, e la magistratura, a ogni livello, tace. Dov'è finita l'obbligatorietà dell'azione penale, usbergo dietro il quale le procure più interventiste hanno dispiegato da Tangentopoli in poi il massimo della discrezionalità mandando a casa governi e rovinando scomode carriere politiche? Nessuno intende verificare se i sospetti inquietanti gettati in pasto all'opinione pubblica da Di Matteo in prima serata tv sono fondati o meno? E visto che lui li ritiene evidentemente fondati, perché conseguentemente non li denuncia nelle sedi appropriate? E il Csm non ha nulla da dire? Ha proceduto in via d'urgenza rimuovendo il procuratore generale di Catanzaro Lupacchini perché aveva osato criticare il protagonismo di Gratteri, e ora resta silente di fronte a un magistrato, eletto nelle sue prestigiose fila, che accusa il ministro della Giustizia di essere quantomeno succube dei diktat mafiosi? Siamo di fronte a un cortocircuito micidiale che però viene derubricato, per convenienza politica, a semplice “equivoco”. Un silenzio anch'esso assordante che dice molto sullo stato in cui versa la giustizia italiana, piegata ai voleri della sua ala giacobina che tutto dispone e, all'occorrenza, tutto nasconde.  

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