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Di Maio, addio al veleno contro i traditori

Luigi Di Maio si dimette da capo politico del M5S e nel discorso di addio si scatena contro i "sabotatori interni"

Carlantonio Solimene
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L'orgoglio per le tante cose fatte. L'auspicio che il governo, nonostante il suo passi indietro, arrivi a fine legislatura. Il ringraziamento a chi ha creduto in lui e a chi lo ha sostenuto «in quest'ultimo anno che è stato molto difficile». E anche, forse soprattutto, i molti sassolini da togliersi dalle scarpe nei confronti di chi ha remato contro, «i nemici interni che ci fanno più male di quelli esterni». C'è stato tutto questo nel discorso con il quale Luigi Di Maio, al Tempio di Adriano di Roma, ha rassegnato le dimissioni da capo politico dei 5 stelle. Dimissioni che non significano un passo indietro definitivo dalla politica né dal Movimento. «È la mia vita - dice Di Maio - e agli Stati generali ci sarò anch'io con le mie idee su come dobbiamo immaginare il Paese dei prossimi vent'anni». Per ora le uniche certezze sono che la guida dei grillini, nel percorso che condurrà all'assise «rifondativa» di marzo, sarà affidata a Vito Crimi, membro più anziano del comitato di garanzia, e che Di Maio non sarà più neanche il capo delegazione dei ministri a 5 stelle nel governo, ruolo che potrebbe passare a Stefano Patuanelli, titolare del Mise. Per il resto, il futuro è tutto da scrivere. E non è detto che Luigi da Pomigliano, nonostante il passo indietro di ieri, non voglia recitarvi ancora un ruolo da protagonista. Il momento che forse resterà di più nell'immaginario, nel giorno delle dimissioni del capo politico, è la chiusura del discorso, quando Di Maio ha parlato della sua abitudine di portare sempre la cravatta e l'ha giustificata con il «rispetto che si deve alle istituzioni». Poi, allontanandosi dal microfono, se l'è levata e l'ha poggiata sul leggìo. Un gesto altamente simbolico. Ma si può dire che, idealmente, il ministro degli Esteri la cravatta se la fosse tolta già da un mesetto. Da quando, ha confessato, aveva cominciato a scrivere il discorso dell'addio (arrivederci?). E lo ha fatto riversando in quelle righe tutta la rabbia che a lungo aveva tenuto dentro. L'attacco ai «sabotatori» è una costante nelle sue parole. Di Maio non fa nomi, ma gli identikit (Gianluigi Paragone su tutti) sono abbastanza espliciti. «Ci sono stati - spiega - quelli che non hanno lavorato per il gruppo ma solo per la propria visibilità, chi ha criticato senza voler costruire ma solo per distruggere. Se non fossimo andati l'uno contro l'altro avremmo ottenuto risultati ancora più importanti». A chi ha soffiato sulle divisione interne l'ormai ex capo politico rimprovera una «profonda immaturità politica» e di aver agevolato il lavoro di chi, «descrivendoci spaccati, ha avuto gioco facile a colpirci». Così come ha attaccato «chi è stato eletto con una votazione su Rousseau e, una volta ottenuto l'incarico, ha cominciato a criticare Rousseau». Ai dissidenti Di Maio ha rivolto infine un invito al vetriolo: «Prendetevi le responsabilità, perché è bello parlare dei problemi, è un po' più difficile provare a risolverli». La sala, affollata per gran parte da «dimaiani» convinti (ma c'era anche il senatore Emanuele Dessì, tra i contestatori della leadership), si è più volta spellata le mani per gli applausi. C'è anche traccia di qualche parziale autocritica, nel discorso. Di Maio ha ammesso di essere stato troppo «riservato», talvolta, di non aver condiviso le decisioni con il gruppo parlamentare. Ma lo ha fatto «perché talvolta una fuga di notizie rischia di mandare all'aria un obiettivo». E agli scontenti ha replicato che «in un movimento dalle sensibilità politiche così diverse, è normale che ogni decisione possa deludere qualcuno». In ogni caso, lui va fiero di quanto fatto, e ha citato tra le altre cose il Reddito di cittadinanza, il decreto Dignità, la riforma della prescrizione, la legge spazzacorrotti, la lotta contro le incrostazioni di potere nel Paese, come quella per togliere le concessioni autostradali ai Benetton. «A tal proposito - scherza - ho letto che il titolo di Atlantia, dopo la notizia delle mie dimissioni, è tornato a crescere in Borsa. Ma vuol dire che i mercati non hanno capito niente...». Per il futuro, ha augurato al Movimento un bagno di realismo: «È il momento di rifondarci. La linea resta quella di mettere i beni comuni indispensabili, acqua, scuola, sanità, davanti alla logica del profitto. Ma da domani dovremo fare attenzione a elencare non solo le cose che vogliamo realizzare, ma anche i tempi che ci vogliono per riuscirci. In pochi mesi non potevamo rimediare ai disastri che gli altri avevano fatto in trent'anni. È per questo che chiediamo di essere giudicati a fine legislatura, ed è per questo che il governo deve andare avanti». C'è spazio infine per i ringraziamenti personali. A partire dal premier Giuseppe Conte («talvolta non siamo stati d'accordo, ma sono fiero della sua scelta, è una persona di enorme onestà intellettuale»), per arrivare a Beppe Grillo e ai due Casaleggio, Gianroberto prima e Davide poi, che hanno creduto in lui. Per arrivare alla famiglia «che negli ultimi anni mi ha visto pochissimo», alla fidanzata Virginia Saba («che mi è stata vicina in un anno difficilissimo») e a tutto lo staff. Poi, come raccontato, la «liberazione» dalla cravatta. In sala c'era chi, come il deputato Leonardo Donno, si è sciolto in lacrime per la commozione. Tutti si sono affollati per abbracciare l'ex leader, lui è sparito dietro le quinte e, inevitabilmente, ha dato il via alla corsa per la successione. Da Patuanelli a Roberta Lombardi, da Alessandro Di Battista a Paola Taverna, la lista dei candidati è lunga. Ma se ne parlerà solo dopo gli Stati generali. «Prima vengono le cose - ha ripetuto Di Maio nel suo discorso - e solo dopo le persone».

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