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Vianello, Tognazzi & Co. I repubblichini della tv

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Tanti artisti erano a Salò e poi hanno fatto grande l'Italia

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«Non rinnego né Salò né Sanremo»: era il gennaio del 1998, il secolo scorso, quando Raimondo Vianello, in un'intervista al settimanale «Lo Stato», diretto da Marcello Veneziani, mise un punto fermo alla memoria di un Paese che è da sempre smemorato e che quando rammenta, a chi ha vissuto una storia sconfitta chiede di non riconoscersi in una parte (seppur giovane e lontana, breve) della propria biografia. Lui, Raimondo, che dopo l'8 settembre 1943 scelse la Repubblica di Salò, assieme ad altri ragazzi (che poi si riveleranno grandi talenti ed andranno a dar sostanza e passione alla televisione, al cinema, allo spettacolo italiano, creando un senso comune nazionale) come il suo futuro amico e artista di comicità Ugo Tognazzi (Brigata Nera di Cremona), come Giorgio Albertazzi e Dario Fo, come Walter Chiari, come Hugo Pratt ed Enrico Maria Salerno, il senso della propria storia non l'ha mai smarrito. «I giovani - spiegherà anni dopo, ormai famoso - che sono andati a Salò dovrebbero essere più rispettati se non altro per i loro ideali ispiratori. Chi è andato su sapeva di finire male. Non va abiurato». Vianello, che il talento ed uno straordinario sodalizio comico ed artistico con Tognazzi risolleverà dalla sconfitta, male c'era finito sul serio, recluso nel campo di prigionia di Coltano, allestito dagli Alleati vicino Pisa, assieme ad altri migliaia di ragazzi e di uomini della Repubblica Sociale. Il gioco della guerra è un gioco duro, per tutti, soprattutto per i vinti. Bisognerebbe, oggi, a settant'anni di distanza - tra uno speciale di Fabio Fazio in prima serata su Rai Uno ed un'astronauta donna dentro uno spot sulla Liberazione - ragionarci a fondo, oltre la superficie e senza pregiudizi, su questo nostro passato vicino che si chiama guerra civile. Al «Corriere della Sera», stupito dal suo non rinnegare, Vianello rispondeva che «i giovani che sono andati a Salò erano spinti dall'idea di non abbandonare la battaglia. Anche se destinati a perdere, già la consapevolezza della sconfitta conferisce un forte dolore a quegli ideali. Per cui condannare in toto questo capitolo storico non mi sembra giusto. Non mi pare di aver dichiarato nulla di sconvolgente. Ho voluto solo dire che molti giovani sono andati a Salò in buona fede, solo per tener fede alla parola. Non per vincere la guerra, ma perché avevano degli ideali. Per questo vanno rispettati». Alcuni di quei giovani, e tra questi Vianello, Tognazzi, Chiari, Ferreri, Pratt ed altri che ricordavamo poc'anzi, scriveranno un pezzo di racconto, tra tv e cultura, tra teatro e cinema, della nuova Italia. Alcuni tenderanno a obliare quella giovinezza di Salò, altri no. Altri ancora a non parlarne ma poco importa, perché non è la rimozione il punto. La questione è che sono stati a Salò e poi han contribuito all'identità dell'Italia del dopoguerra. Han costruito un pezzo del nostro Paese senza passare per la Resistenza. Perché Salò non è finita - come a volte accade quando si ha a che far con storie italiane - in un salotto ma in una tragedia. Il giornalista Giampaolo Pansa ha titolato un suo libro sul dopo 25 aprile, raccontato senza infingimenti, «Il sangue dei vinti»; noi qui vogliamo, degli sconfitti, recuperare la memoria. Ricordare, ad esempio, fuor dalla retorica della libertà, che Raimondo Vianello ed Ugo Tognazzi, nel 1959, vennero addirittura licenziati dalla Rai dell'Italia democratica, per una parodia sull'allora presidente della Repubblica Gronchi. Nel varietà «Un due tre» riproposero in una scenetta la goffa caduta di Gronchi, alla presenza di De Gaulle, caduta che i giornali italiani non avevano riportato. Nella loro scenetta in televisione, invece, uno dei due cadeva da una sedia e l'altro domandava: «Ma chi ti credi di essere?». Da Salò alla tv, forse han semplicemente creduto di essere uomini. Liberi.

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