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Ma nell'agenda serve più Giustizia

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Il carattere «non dettagliato», «non esaustivo» e di «primo contributo per una riflessione aperta», come ha voluto prudentemente precisare il suo stesso autore nella lettera di accompagnamento agli internauti, allevia la delusione di chi ha letto «l'agenda» di Mario Monti rilevandone i limiti nella parte riguardante la giustizia. Che si esaurisce in sette righe del paragrafo titolato «Giustizia, sicurezza, criminalità organizzata e mafie», sistemato nel quarto ed ultimo capitolo che si chiama «Cambiare mentalità, cambiare comportamenti». Rileggiamole insieme queste benedette sette righe: «Nel campo della giustizia, oltre a quanto è stato iniziato dal governo in materia di miglioramento e accelerazione per la giustizia civile e delle imprese, va introdotta una coerente disciplina del falso in bilancio e completata la normativa sull'anticorruzione, l'antiriciclaggio e l'autoriciclaggio. Va rivista la riduzione dei termini di prescrizione per garantire in modo più adeguato l'azione di prevenzione e contrasto di diversi gravi reati. Va introdotta una disciplina sulle intercettazioni e una più robusta disciplina sulla prevenzione del conflitto d'interesse». È francamente un po' troppo poco per essere l'indicazione, sia pure sintetica, di una riforma della giustizia, del resto neppure indicata esplicitamente come tale, spero non perché il presidente del Consiglio dimissionario non la ritenga necessaria. Neppure alla luce di ciò che gli è capitato di vedere, e in qualche modo anche di gestire, dalla sua postazione di Palazzo Chigi, di fronte a casi abbastanza clamorosi di rapporti a dir poco pasticciati fra il potere giudiziario e gli altri in cui si articola lo Stato. Dalla più recente vicenda dell'Ilva di Taranto, sulla quale il governo ha dovuto intervenire con un decreto legge per evitare che la politica industriale fosse decisa da un tribunale, alla meno recente ma non meno grave disinvoltura con la quale, legge alla mano, la Procura della Repubblica di Palermo ha potuto accedere al telefono del capo dello Stato. E cercare di destinarne le intercettazioni, considerate peraltro irrilevanti ai fini delle indagini che le avevano provocate, ad una procedura curiosamente adatta a garantirne più la diffusione che la distruzione. C'è voluto il coraggio del presidente della Repubblica, in questi tempi di quasi onnipotenza dei pubblici ministeri, per rivoltarsi davanti alla Corte Costituzionale, senza lasciarsi intimidire dall'accusa di giuristi tanto autorevoli quanto presunti di volerla praticamente piegare alle sue ragioni personali travestite da ragioni di Stato. Questo conflitto, si dirà, è stato bene o male risolto appunto dalla Corte Costituzionale, che ha indicato alla Procura e al giudice competente di Palermo la legge ordinaria, diversa da quella scelta da loro, cui ricorrere per garantire il rispetto delle prerogative del capo dello Stato. Ma resta irrisolto il problema a monte di questo conflitto, etico e istituzionale al tempo stesso: un problema peraltro dimostrato dal diritto che il magistrato protagonista della vicenda, il pubblico ministero Antonio Ingroia, ha rivendicato di poter liquidare come «politica» la sentenza della Corte. E, visto che lo scioglimento anticipato delle Camere gliene ha dato l'occasione, ha prenotato la sua candidatura alle elezioni, alla testa di una lista di sinistra arancione promossa da ex magistrati abituati anch'essi alla ribalta e ispirata proprio ad una concezione distorta e distorcente del potere giudiziario. Dal quale tutti gli altri dovrebbero rassegnarsi a dipendere in uno Stato che anche sotto questo profilo - e non solo per il rapporto fra pil e debito pubblico cui tanto giustamente tiene l'agenda Monti - è ben distante da quelli che chiamiamo i parametri europei. Lo dimostrano, se non altro, le condanne e multe salatissime che l'Italia si procura a livello comunitario per il modo in cui si amministra da noi la giustizia. Tanto per non essere o apparire generici pure noi, è augurabile che in una versione più completa dell'agenda Monti, prevedibile con le lodevoli premesse del presidente del Consiglio sulla «riflessione» alla quale è aperto questo suo «primo contributo», trovino spazio i temi della responsabilità civile dei magistrati, sancita nei fatti da un referendum nel 1987 tradito dai politici dopo pochi mesi, e della separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici. Di cui oggi siamo perversamente abituati anche nei giornali, tra cronache, didascalie e titoli, a confondere i ruoli scambiando gli uni per gli altri, e viceversa. Sono materie incandescenti, d'accordo, rese tali dalla furia corporativa, anzi castale, con la quale il sindacato delle toghe e la sua tifoseria politica e mediatica, purtroppo comprensiva spesso del Consiglio Superiore della Magistratura, resistono e criminalizzano chi la pensa diversamente, fuori ma anche dentro i tribunali. Dove non sono mancati, a cominciare dal compianto Giovanni Falcone, e non mancano giudici e persino pubblici ministeri, a cominciare da Carlo Nordio, convinti che la separazione delle loro carriere non sia per niente un attentato alla loro autonomia, indipendenza eccetera eccetera. Ebbene, Monti dovrà rivelarsi un vero riformatore anche su questo delicatissimo ma vitale terreno, senza la paura di incorrere nell'accusa di sposare, nonostante la rottura intervenuta con lui sul piano politico generale, le cause - sotto tutti i punti di vista - di Silvio Berlusconi. Il quale, al netto dei suoi indubitabili errori personali, dei quali egli stesso per tanti versi si è anche scusato di recente in pubblico, sui temi della giustizia aveva e continua ad avere ragioni da vendere.

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