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di Marlowe Siamo tutti Lord Byron.

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Araccogliere il testimone di un ellenismo mai tramontato nelle menti illuminate europee è Boris Johnson, sindaco conservatore di Londra: «Perché un greco - ha tuonato sul Daily Telegraph - dovrebbe votare per un programma economico se esso è deciso a Bruxelles, anzi a Berlino? Che significato ha la libertà greca, la libertà per cui Byron combatté, se la Grecia è tornata a una dipendenza ottomana, con la Sublime porta ora situata in Germania?». Il titolo dell'articolo del colto e dandy discepolo di Margaret Thatcher, conservatrice del popolo, è anch'esso un programma: «Il medioevo della democrazia». Una lezione su un tema immortale: la libertà non è data per sempre; va difesa ovunque e comunque sia a rischio. Ecco perché passando dal sacro al profano (o viceversa?) la vera finale degli Europei di calcio non si terrà a Kiev il primo luglio, ma venerdì a Danzica: Germania-Grecia, e tutti a tifare per Samaras (Georgios l'attaccante, non Antonis leader di Nea Demokratia) e compagni. La passione neo-ellenista è trasversale: Il Tempo ha titolato ieri «Forza Grecia». Il Foglio pubblica un'intera pagina con la bandiera greca, come dopo l'11 settembre quella americana. Pagina «autogestita dal collettivo redazionale Tsipras», il nome del giovane capo della sinistra di Syriza, l'opposizione che tanto disturba Angela Merkel. Nella rossa Livorno alla Grecia sarà dedicata la kermesse estiva del quartiere antico della Venezia. Su l'Unità campeggia la denuncia: «Merkel schiaffeggia la Grecia», appena mitigata dal dubbio: «Gioire perché vince la destra?». La realtà è che se ci siamo tutti scoperti filoellenici non è certo per le suggestioni che Atene suscitava negli spiriti fieri dell'Ottocento. Nessuno si sarebbe mosso per un paese che ha la classe politica più inefficiente e corrotta dell'Europa occidentale, un'evasione fiscale che fa impallidire quella italiana, che non ha investito le rendite del turismo in ricerca e tecnologia ma le ha distribuiti in clientele. Noi non tifiamo per la Grecia dei tanti Papandreu o Karamanlis, i padroni dei due partiti storici della destra e del Pasok: stiamo però schierandoci per un principio, che affonda come sempre le radici nella storia, nella cultura, nella società. E quindi è universale. Non si tratta di euro né di fiscal compact. Il punto è precisamente quello toccato da Boris Johnson: «Che significato ha la libertà greca? Perché un greco dovrebbe votare per ciò che è deciso a Berlino?». È singolare che questo aspetto sia ignorato dalle classi dirigenti tedesche e da un'informazione, al contrario, granitica. Certo, ha colpito un'intervista dell'ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, che ricorda come «per due volte, nel XX secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l'ordine europeo. Poi ha convinto l'Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando pienamente l'integrazione d'Europa, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione. Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita causasse la distruzione dell'ordine europeo una terza volta». Ma Fischer ha parlato a giornali italiani, francesi, spagnoli, cioè quelli che i tedeschi chiamano spregiativamente Club Med; le sue idee faticano a farsi largo tra i suoi stessi elettori. Che invece si rispecchiano nelle sei milioni di copie della Bild Zeitung, il più venduto quotidiano d'Europa: «Questi cinque vogliono i nostri soldi», titola il giornale sotto le foto di Monti, Obama, Rajoy, Barroso e Hollande. La Bild ha smesso di mettere in prima pagina le donne nude, guadagnando più con temi politico-economici. Per questo non è assimilabile ai tabloid pop londinesi: il pubblico è più ampio, di cultura e censo più elevati. Ancora più in alto mira Der Spiegel, settimanale da un milione di copie, inchieste ruvide e linea liberal. Informatissimo sui segreti della Cancelleria, lo Spiegel si è specializzato nel dipingere un'Italia spaghettara e mandolinesca, piena di capitani Schettino pronti a fregare i virtuosi nordici. Non c'è solo per noi: la vittoria di Hollande è spiegata come «voto di rabbia contro il populismo snob di Sarkozy». Che sia stato anche un no all'acquiescenza di Sarkò alla Merkel, tema dell'intera campagna elettorale, è irrilevante. Il mood monolitico dell'opinione pubblica tedesca è forse il dato più interessante e sconcertante. Che i problemi dell'euro nascano solo ad Atene Parigi e Roma, e non anche a Francoforte e Berlino, pare un dogma indiscutibile, esportato anche nei paesi satelliti. Dogma a lungo spiegato con la dimensione etica delle scelte economiche della Germania. Lo ha detto anche Monti a Obama: «Per i tedeschi l'economia è ancora un ramo della filosofia morale». E poi c'è la stranoto spauracchio dell'inflazione a nove zeri della repubblica di Weimar, che determinerebbe il rigore della Bundesbank e della Bce. E da ultime le radici luterane, nella Germania Est, della Merkel. Insomma, il contrario della pratica anglosassone, dove la «mano invisibile del mercato» di Adam Smith coabita senza scandalo con la liquidità pubblica della Fed e le svalutazioni del dollaro. Del resto se la costituzione tedesca prevede la stabilità della moneta, quella americana il diritto al benessere e alla felicità. Ma proprio il richiamo alla morale luterana fa acqua: se i tedeschi hanno la memoria di Weimar, perché non ricordano anche ciò che dalle loro parti venne immediatamente dopo? Se la Bundesbank è intransigente con la Bce, perché compra i titoli invenduti del suo Tesoro? Se il dogma merkeliano è «un'economia sana non lascia debiti alle future generazioni», perché proprio sotto il suo governo il debito tedesco ha raggiunto i 2.100 miliardi, il terzo del mondo? Per questo fra due giorni tiferemo Grecia. Come abbiamo tifato Chelsea nella Champions League.

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