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La Cultura senza fondi butta 80 milioni di euro

L'area della Casa dei Gladiatori a Pompei chiusa ai visitatori

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Ottanta milioni buttati. Tenuti una decina di anni in un cassetto del ministero dei Beni culturali e sfumati in un attimo. Il mondo della cultura lamenta da sempre una mancanza di fondi per mantenere e rinnovare il grande patrimonio italiano. Eppure i soldi per fare qualcosa c'erano, salvo però non averli mai utilizzati. Ogni anno venivano riaccreditati al Mibac nonostante non fossero impegnati. Un meccanismo possibile solo perché il ministero benificia (anzi, beneficiava) di una contabilità speciale. Ma, prima o poi, i nodi vengono al pettine. Nelle pieghe della legge di stabilità 2012, infatti, è decretata la chiusura delle contabilità speciali. Risultato: addio soldi. Il Mibac dovrà restituire al ministero dell'Economia e delle Finanze 64 milioni di euro entro questo maggio e 10 milioni di euro entro il prossimo maggio. Insomma, un bel po' di risorse che potevano servire a valorizzare il patrimonio in tempi di magra vengono meno. Un fatto, questo, che ha fatto balzare dalla sedia alcuni operatori del settore cultura come il consigliere di amministrazione del PalaExpo, Michele Gerace. «Questi soldi potevano essere utilizzati per la conservazione dei beni culturali, per la produzione culturale o la valorizzazione o promozione. Ormai non possiamo farci nulla», spiega Gerace che spera invece di poter vedere una migliore gestione del denaro pubblico nelle future leggi e documentazioin di programmazione economico finanziaria. Il consigliere, tra i primi ad accorgersi del paradosso che si è venuto a creare al Mibac, è convinto che «la produzione culturale, le imprese creative e tutta la loro filiera, non hanno bisogno di essere assistititi da sovvenzioni pubbliche per eprimersi e per produrre,perché se lo Stato è in grado di garantire a tutte le imprese, comprese quella culturale e creativa, la possibilità di competere ad armi pari, le imprese stesse da una parte si andranno a selezionare sul mercato e tutte quelle che meritano potranno camminare con le proprie gambe e non con i soldi dei cittadini, anche nel tempo della crisi. Ovviamente, purché lo stato non droghi il mercato». Dall'altra parte, questi soldi, come quegli ottanta milioni tornati al Mef, e che normalmente sono destinati alla produzione, «dovrebbero essere indirizzati alla valorizzazione e alla promozione, perché lì il sistema da solo non basta». Del resto, per un Paese come l'Italia, investire in questa direzione dovrebbe essere un fatto naturale. I dati parlano chiaro. Negli stati Ue il fatturato del settore tocca i 600 miliardi l'anno, superando l'alimentare, il tessile e il chimico. In Germania, per esempio, le 237 mila piccole e medie imprese culturali e creative (77 mila solo a Berlino) hanno fatto crescere il Pil del 3 per cento e l'occupazione del 2 per cento. I Paesi Bric hanno costruito sulla cultura il proprio asset di riferimento (caso eclatante è l'Argentina che il giorno dopo la grande crisi ha investito nel settore). Eppure nel Piano nazionale delle riforme (Pnr) di molti Paesi europei e, quindi, anche in Italia non compare mai la voce «cultura». «E questo è un fatto curioso - dice Gerace -. Tutti quelli che scrivono i manifesti sulla cultura, il giorno dopo devrebbero essere pronti a mettere in pratica le buone intenzioni, essere consequenziali. Per avere possibilità di sviluppo mi immagino un governo che sia consequenziale delle cose che sottoscrive, quando va a stanziare le voci di bilancio, e questa è la strada buona per puntarci veramente». Oppure, il rischio è trovarsi di nuovo di fronte a occasione perse. Come quegli ottanta milioni lasciati per anni in un angolo del ministero dei Beni culturali. E ora «svaniti».

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