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di Marlowe Cinque giorni fa Gennaro De Falco, un brillante avvocato napoletano, ha abbandonato il pool legale di Equitalia.

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«InItalia si è messo in moto un meccanismo diabolico che sta distruggendo famiglie, persone e imprese» ha dichiarato. «Forse questa mia decisione aiuterà a far riflettere sulla sostenibilità sociale ed etica della gestione di questa crisi». Quando De Falco ha preso la sua decisione il conto delle persone che si è tolta la vita dall'inizio dell'anno era arrivato a 19. Dopo il ponte siamo a 22: tra gli ultimi un imprenditore di Nuoro che ha dovuto chiudere l'azienda licenziando tutti i dipendenti, compresi i figli. Mario Monti ha ricordato che in Grecia i suicidi per la crisi sono stati oltre 1.700, sottintendendo che - grazie al suo governo - noi stiamo molto meglio. Magari è così, ma già nel 2010, ben prima che lo spread si introducesse nella nostra vita quotidiana, 362 persone si erano tolte la vita per aver perso il lavoro, l'impresa o non riuscire a pagare le tasse. Intanto seicento sindaci si dicono pronti all'opposizione fiscale, e disdicono i contratti di esazione delle imposte di Equitalia: partita al Nord e cavalcata dalla Lega in evidenti difficoltà, la protesta diventa trasversale e arriva alla Sardegna, alla Sicilia, alla Lucania. L'endorsement più importante è del sindaco di Milano Giuliano Pisapia, vicino a Rifondazione: «O governo e Parlamento prendono in tempi brevi decisioni che vanno nella direzione di più equità e sviluppo, o a settembre ci sarà un'esplosione sociale». Naturalmente ogni forza politica ha i suoi motivi, che poco hanno a che vedere con l'etica, per strumentalizzare anche i gesti più estremi. Ma tutto ciò non può farci chiudere gli occhi di fronte a una realtà che vede togliersi la vita tanto gli operai quanto gli imprenditori stretti nella morsa delle tasse e delle banche. Non è un caso se Giorgio Squinzi, industriale di successo e da sempre moderato, appena nominato alla presidenza di Confindustria, denuncia quella fiscale come prima emergenza del Paese; mentre Andrea Tomat, capo degli industriali veneti, è più tranchant: «Non mi iscrivo al partito dell'antipolitica, ma mi sono rotto i coglioni. Parliamo sempre di tasse, ma quand'è che cominciamo a parlare di tagli? Lo dico anche al presidente della Repubblica: siamo stufi di chi spende male, non soltanto di chi evade». L'esasperazione sbarca anche sulla confindustriale Radio 24, dove fa il boom Disperati mai, rubrica di denuncia e ostegno di imprenditori in difficoltà. In questa situazione il Primo Maggio, da festa dei lavoratori, rischia di trasformarsi in rabbia per un lavoro che svanisce ogni giorno, un peso fiscale insostenibile, e soprattutto di celebrarsi in una situazione politica paradossale e pericolosissima. Il rischio lo ha individuato ieri Mario Sechi a proposito del fenomeno Beppe Grillo. Rischio, così lo interpretiamo noi, non per i vecchi partiti che dovranno cedere fette di consenso e potere all'ex comico genovese: ma per l'Italia che, caso unico tra tutte le democrazie, preferisce seguire questo abile pifferaio magico ed esaltarsi nelle piazze e sui blog ai suoi insulti, anziché individuare e pretendere una svolta politica seria, un'alternativa di governo credibile. Ho letto i commenti all'editoriale di Sechi e ne riporto due. Il primo: «Provi a vivere con 800 euro al mese, e poi vedrà che le parole di Grillo sono manna per le orecchie. Oggi non avrei tentennamenti, il Terzo Stato è pronto a ghigliottinare i bastardi che ci succhiano il sangue. viva la rivoluzione». Il secondo: «Il disgusto per i politicanti - e non della politica - ormai fa accettare a molta gente anche un discorso strampalato come quello di Grillo che calibra le sue esagerazioni con il crescente malcontento che serpeggia tra i cittadini. Nella situazione attuale la gente non va tanto per il sottile, ma si convince che per ricostruire bisogna prima distruggere. E Grillo, al momento, è l'unico piccone disponibile». Bisogna dire che, grillini o meno, c'è in questi messaggi più verità che in tante paludatissime analisi. Soprattutto c'è più Italia di quanta ne vediamo nei piani del governo, nei mille annunci a vuoto dell'Europa, nei consigli dei ministri, nelle strategie (si fa per dire) dei politici. Partito come un Churchill che prometteva sì lacrime e sangue, ma cercava di toccare i tasti dell'orgoglio nazionale e soprattutto indicava la vittoria, Monti si sta riducendo ad affidare al fisco e ad Equitalia il compito improprio di far quadrare un bilancio imposto da Bruxelles e Berlino. È un errore madornale: pagare le tasse è un dovere e farle pagare un lavoro ingrato. Sotto questo aspetto l'Agenzia delle Entrate sta facendo più del dovuto. Ma assegnare ad Equitalia il ruolo centrale della politica economica è una aberrazione e una sconfitta. Altrettanta impotenza traspare dalla questione dei tagli alla spesa, la famosa spending review: il governo ha varato l'immancabile task force e ha chiamato Enrico Bondi, l'ex (bravo) commissario di Montedison e Parmalat. Uno zar per i tagli in un governo di tecnici e banchieri. Ma allora che ci stanno a fare? E che ci sta a fare la politica? Il centrodestra continua a perdersi nelle gelosie su chi, come e dove debba guidare i moderati: mentre loro, i moderati appunto, hanno ormai la bava alla bocca e il portafoglio vuoto. Quanto alla sinistra, la crisi la fa regredire a dieci anni fa: la "foto di Vasto" ed il massimalismo non sono più un'opzione ma una necessità da contrapporre alle piazzate di Grillo. Nel '94 il Cavaliere risolse la situazione con la discesa in campo, restituendo lo spazio e la rappresentanza spariti con il crollo della Dc e dei laici, e al tempo stesso inventandosi leader di governo. Poi fu Romano Prodi a fare la stessa operazione a sinistra: pur tra alti e bassi, due novità che gettarono avanti la palla, ed oggi appaiono un lusso. Adesso la politica non trova né leader, né idee né progetti. Ed invece, che si chiamino Montezemolo o Matteo Renzi, c'è bisogno di un nuovo scatto. L'Italia si merita di meglio di un Beppe Grillo.

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