Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

La pacchia indecente dei costi della politica

Il premier Mario Monti

  • a
  • a
  • a

Al netto dei cavilli tecnici e fiscali, delle formule più o meno giuridiche, delle cifre al netto e al lordo, delle differenze tra vitalizi o simili calcolati con il sistema retributivo o contributivo, o tra rimborsi forfettari e non, e di tante altre diavolerie, abbiamo tutti capito che i parlamentari la stanno facendo sostanzialmente franca con i tagli. E non solo con quelli dei loro trattamenti economici, ma anche con quelli del loro numero, per quanto tutti i partiti si dichiarino favorevoli a ridurre di cento e persino duecento gli attuali 630 deputati e di cinquanta o cento gli attuali 315 senatori. E fra questi partiti ce ne sono anche di schierati sei anni fa nella campagna referendaria purtroppo riuscita, sotto la direzione dall'indimenticato Oscar Luigi Scalfaro, pace all'anima sua, contro la riforma costituzionale appena approvata dall'allora maggioranza parlamentare di centrodestra. Che conteneva anche un bel taglio, concreto, di deputati e senatori. Il tempo ci sarebbe per approvare nell'anno e poco più che rimane di questa legislatura, salvo incidenti e conseguenti elezioni anticipate, per un'altra modifica della Costituzione e ridurre la consistenza delle Camere: una modifica magari da approvare con quella maggioranza dei due terzi, mancata nel 2006 per l'opposizione della sinistra, che servirebbe a metterla al riparo dai rischi, o solo dalla ulteriore lungaggine, di una verifica referendaria. Ma dubito che ci sia anche, e davvero, la volontà politica di un intervento del genere, viste le condizioni che i loro apparenti sostenitori hanno posto e pongono. La condizione, per esempio, che oltre a ridurre i parlamentari si provveda anche a riscrivere il bicameralismo per distinguere le funzioni, ormai costosamente e inutilmente ripetitive, delle assemblee di Montecitorio e di Palazzo Madama. O anche a ridefinire i poteri del presidente del Consiglio e, visto che ci siamo, anche quelli del presidente della Repubblica. Le cui risorse si sono rivelate anche con Giorgio Napolitano, dopo le esperienze di Sandro Pertini e successori, ben superiori a quelle desiderate o immaginate a lungo dai cultori delle presidenze di contenuto e stile notarile, come si ritenne, a torto o a ragione, che fosse stata quella di Luigi Einaudi fra il 1948 e il 1955. Condizionare la riduzione dei parlamentari a una riforma costituzionale allargata anche ai temi del bicameralismo e dei poteri dei capi del governo e dello Stato, è già una complicazione sufficiente a rendere l'operazione meno certa, o più incerta, di quanto già non appaia. Ma condizionare a sua volta questa operazione, come si reclama da più parti, alla contemporanea riforma elettorale, per quanto si tratti questa volta di una legge ordinaria, non costituzionale, è una complicazione ancora più grande per la natura e la dimensione dei contrasti esistenti in materia fra i partiti e all'interno di ciascuno di essi. Dove s'intrecciano interessi e ambizioni, di natura persino personale, in un quadro politico per giunta di estrema confusione e incertezza, che non risparmia nessuno dei tre poli oggi impegnati, contemporaneamente, a scomporre e ricomporre - per usare una formula coniata negli anni Sessanta da Aldo Moro - le loro forze e i loro rapporti. E ciò all'ombra di un governo tecnico, quello di Mario Monti, al quale essi hanno dovuto cedere il passo per la loro provata incapacità di affrontare da soli, né direttamente insieme, i nodi di una gravissima crisi economica e finanziaria. Che comporta il dovere di tutti di fare sacrifici e di cambiare abitudini, più con le forbici in mano che con le braccia protese a difendere ciò che non si può più mantenere. E torniamo al tema dei tagli ai quali i parlamentari stanno cercando sin troppo chiaramente di sottrarsi facendo come Bertoldo, che rivendicava il diritto di scegliere l'albero al quale lasciarsi impiccare per non trovare mai naturalmente quello adatto. Di fronte a questa tendenza bertoldiana del Parlamento, che rivendica la sua autonomia, o come altro la chiamano gli esperti, per fare opera di cucito più che di taglio, il presidente del Consiglio dovrà prima o dopo decidersi a togliersi il loden, direbbe Mario Sechi, e a fare quello che deve: tagliare i cosiddetti fondi di dotazione. E non solo alle Camere, ma anche a tutti gli altri organismi costituzionali, propri o impropri, che vivono di fondi di dotazione: dalla Presidenza della Repubblica alla Corte Costituzionale, dal Consiglio Superiore della Magistratura al Consiglio di Stato, dalla Corte dei conti al Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, e alla stessa Presidenza del Consiglio. Che tutti insieme dispongono ogni anno di quasi tre miliardi di euro, di cui uno, sia pure scarso, assorbito solo dalla Camera dei Deputati. Che si è prenotata a spenderne altrettanto, nell'ultima legge triennale di stabilità, la ex finanziaria, in ciascuno anche dei prossimi due anni. Tagli, presidente, tagli, lasciando ai parlamentari l'autonomia che reclamano di fissarsi, con quel che riceveranno in meno, competenze economiche e quant'altro. Su questi benedetti tagli si faccia poi sfiduciare, signor presidente tecnico del Consiglio, dalle onorevoli Camere, se ne avranno la faccia davanti non tanto a Lei, quanto agli elettori. Che in ogni caso dovranno votare l'anno prossimo per scadenza ordinaria della legislatura. Visto che si trova, caro presidente Monti, tagli pure i finanziamenti ai partiti. Che sono scandalosamente alti, oltre che scandalosamente adottati come rimborsi elettorali, fra le sacrosante proteste dei soli e soliti radicali di Marco Pannella, per aggirare il finanziamento pubblico abolito con un referendum nel 1993. Partiti che riescono a farsi finanziare anche dopo che non esistono più, come nel caso della Margherita appena esploso. Essi sono riusciti a rovesciare l'immagine sarcasticamente usata ai tempi di Tangentopoli da Rino Formica. Che parlava del suo Psi e degli altri come di conventi poveri frequentati da monaci ricchi. Adesso siamo ai conventi ricchi affollati di monaci non necessariamente o sempre poveri, alle prese con quel miliardo e più di euro destinati ai partiti per ogni legislatura, e pagati in rate annuali che vengono erogate anche quando gli stessi partiti si sciolgono e le legislature finiscono anzitempo. Una pacchia che offende la democrazia, e la decenza.  

Dai blog