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Rischiamo una guerra tra poveri

Blocco dei tir a Genova

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Il blocco dei tir; i forconi siciliani; i tassisti; i farmacisti in serrata, i professionisti in rivolta: sono fatti che possono essere letti e liquidati come mera difesa di interessi corporativi, oppure come i primi sintomi di un malessere sociale più profondo. I lavoratori a stipendio minimo, gli imprenditori presi per il collo dalle banche, i contribuenti usciti malconci dal decreto di dicembre non possono sbarrare il traffico né andare in piazza; ma siamo certi che siano anch'essi preda dello stesso disagio prodotto ogni giorno dal conto della spesa. Ciò che è forse peggio, da un futuro nel quale alle vecchie e spesso non più sostenibili certezze si sta sostituendo l'incertezza su tutto e tutti. Se ci limitiamo a condannare i pur condannabili camionisti, ed i propugnatori di un separatismo siciliano dimentico dei miliardi sperperati in questi decenni, ci saremo messi a posto la coscienza e ci troveremo in linea con la morale comune. Ma non l'avremo detta tutta. La tenuta sociale di un Paese è necessaria a qualsiasi risanamento, dal superamento dell'emergenza alle riforme. Senza di essa, tra l'altro, non si distinguono violenti e furbi da chi ha qualche ragione da far valere e non privilegi da difendere. Senza tenuta sociale si rischia insomma una guerra tra poveri, un indiscriminato tutti contro tutti. Il governo Monti sembra aver fatto della linea "molti nemici molta gloria" il tratto distintivo e la propria forza: se riesco a scontentare tutti, è il ragionamento, vuol dire che colgo nel giusto. Una forte spinta gliela danno i partiti in ritirata. Ieri però il Fondo monetario ha diffuso previsioni che meriterebbero l'attenzione di tecnici e politici. Per l'eurolandia si stima un 2012 in recessione dello 0,5 per cento ed un 2013 in crescita minima dello 0,6. L'Italia è tra i Paesi messi peggio: meno 2,2 di Pil nel 2012 e meno 0,6 nel 2013, contro le precedenti stime di più 0,3 e 0,5. La Spagna ci segue quasi a ruota. Germania e Francia sono viste entrambe in crescita piatta. Con queste cifre, addio pareggio di bilancio nel 2013: quest'anno il deficit potrebbe essere del 2,8 per cento e del 2,3 l'anno prossimo, ben distante dagli obiettivi concordati con l'Unione europea. Il Fmi stima che ce la potremmo cavare grazie ad altre manovre di aggiustamento e se il patto di bilancio europeo di cui si discute in queste ore comprenderà le deroghe per le economie in recessione. Ma il debito pubblico continuerà a crescere nonostante gli effetti della riforma delle pensioni. Secondo gli analisti di Washington il debito passerà dal 121,4 per cento nel 2011 al 125,3 nel 2012 al 126,6 nel 2013. Conclude l'Outlook: «Tenendo conto delle ampie misure correttive già in atto quest'anno, i governi dovrebbero evitare di rispondere al rallentamento economico irrigidendo le misure di bilancio, lasciando invece operare gli stabilizzatori automatici finché lo permettono le condizioni di sostenibilità finanziaria». Traduciamo: ci inoltriamo in un anno durissimo, molto più duro del previsto, nel quale il rigore teutonico potrebbe risultare fatale non solo all'Italia, ma all'Europa intera. Si tratta di un quadro più pessimista di quello della Banca d'Italia, che a sua volta fornisce due ipotesi: Pil dell'Italia a meno 1,5 se lo spread è a 500 punti, oppure a meno 1,2 se scende a 300. L'andamento di ieri, con la temporanea discesa sotto 400 e la repentina risalita oltre i 420, dimostra quanto la strada sia ardua. Del resto non è solo l'Italia a passarsela male. L'Hsbc (Hong Kong & Shanghai Banking Corporation), il primo istituto di credito europeo, ha pubblicato una mappa economica mondiale da qui al 2050. Ne emerge un'area di crescita piatta o modesta, nella quale spiccano l'intera Europa Occidentale, gli Usa, il Giappone; un'altra area in crescita guidata da Brasile, Messico, Turchia e Russia; ed un terza area in crescita rapida con Cina, India, Filippine ed Egitto. Ovviamente molto dipende dalle condizioni di partenza. Ma siamo all'ulteriore conferma del declino economico, e quindi politico e strategico, dell'Occidente. Basta leggere la graduatoria dei Paesi a crescita stagnante: Usa, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Canada e Italia: è il vecchio G7, che un tempo determinava la politica mondiale. L'asse del mondo si sposta sempre più, dal che si deducono almeno due conclusioni. Gli strumenti rigoristi imposti all'Europa da Frau Merkel potrebbero non servire a nulla, anzi risultare controproducenti, in un mondo distante anni luce dal trattato di Maastricht del 1992. Trattato che invece il nuovo "fiscal compact" europeo sta riesumando e potenziando. Seconda conclusione: la strategia attuata da Monti per ottemperate ai diktat europei può risultare tanto obbligata quanto illusoria. Naturalmente la colpa non sarebbe di Mario Monti, che cerca di fare al meglio i compiti a casa, ma dell'autolesionismo europeo che pretende di combattere con l'artiglieria pesante prussiana una guerra dominata dai droni e dall'intelligenza artificiale. Anche la cura Monti si presta però a qualche riflessione. Il decreto salva-Italia è andato a segno, sia pure a suon di tasse e di una dose aggiuntiva di recessione. Il decreto sulle liberalizzazioni è tutto da verificare: le tasse sono sempre certe, i benefici un optional. Ora il governo ha aperto il dossier del mercato del lavoro. È una riforma che attende da anni: la cassa integrazione andava bene quando avevamo molte grandi aziende e l'export ed i consumi non erano sottoposti al nulla osta della Cancelleria di Berlino. Urge dunque adeguarsi ai modelli nordici e anglosassoni, dove non esiste il posto fisso ma molti lavori nell'arco di una vita ed il sussidio di disoccupazione tra l'uno e l'altro. Inoltre è un dovere sottrarre i giovani al destino di precari. Però il lavoro non è come i taxi e gli architetti: non si possono fare promesse a vuoto né sparare cifre a caso. È importante sapere che non esiste una riforma a costo zero, come si sente dire. I due modelli più gettonati, quello tedesco del 2002-2003 e la flexsecurity danese, hanno comportato ingenti prezzi iniziali in termini di bilancio pubblico e disoccupazione. E hanno richiesto un elevato consenso politico e sociale. La Germania di Helmuth Schroeder vedeva al governo socialdemocratici e verdi: la riforma del lavoro comportò uno sfondamento di alcuni anni del deficit federale, sul quale l'Europa di allora chiuse un occhio ma che l'Europa di oggi non perdonerebbe. Quanto alla Danimarca, il primo effetto fu un raddoppio della disoccupazione, nonché un aggravio del 10 per cento della spesa pubblica. Fuori dall'Europa continentale non è un caso se i Paesi in cui si perde il posto per trovarne un altro sono anche quelli dove le banche centrali adottano politiche espansive. L'Italia sotto il tallone tedesco, con zero soldi in cassa e il top di pressione fiscale, se lo può permettere oggi? O, da produttori iper-garantiti, rischiamo di trasformarci nel Paese cacciavite del Nord Europa?  

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