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Troppa concertazione paralizza il Paese

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In un Paese e in una situazione normale i sindacati chiedono per iscritto un incontro «urgente» al governo prima di convocare uno sciopero generale, sia pure di «sole» tre ore, sufficienti comunque a procurare danni e disagi alla pubblica amministrazione, al sistema produttivo e ai cittadini, e non dopo averlo indetto e annunciato con l'aria di chi ha già fatto tutte le verifiche necessarie ed è convinto di non poter fare altrimenti per far sentire le proprie ragioni. E un governo non concede l'incontro senza avere prima chiesto e ottenuto quanto meno la sospensione dello sciopero, per rispetto verso se stesso, verso il Parlamento che sta discutendo proprio dei problemi sollevati dai sindacati e se, permettete, anche degli utenti penalizzati dall'interruzione dei servizi pubblici derivante dallo sciopero. Ma l'Italia non è più da tempo un Paese normale in tema di relazioni tra governo e parti sociali, anche se si sono sprecati e si sprecano ancora gli elogi delle pratiche cosiddette concertative, vedendone solo il bene qualche volta indubbiamente prodotto e non anche il male più spesso procurato o con la rinuncia a decidere, o con compromessi al di sotto di ogni ragionevole attesa o necessità, o con generici annunci. E normale non è di certo la situazione nella quale si trova la collettività nazionale, alle prese con una congiuntura economica e sociale da brividi. Pienamente legittima, per carità, con tutti i decreti di nomina a posto, e con tanto di fiducia ottenuta nei due rami del Parlamento, è di sicuro la condizione del governo di Mario Monti, ma non normale. È una condizione che gli stessi protagonisti della vicenda politica e istituzionale definiscono «anomala» per il carattere straordinario, e di emergenza, che ha dovuto assumere la soluzione data dal capo dello Stato ad una crisi di governo esplosa per l'implosione, insieme, della maggioranza uscita dalle urne nel 2008 e dell'opposizione. Che è stata capace di assediare e infine costringere alla resa lo schieramento avversario, ma non di offrire e di costituire un'alternativa, né sul piano dei numeri parlamentari né su quello dei «contenuti», come Ugo La Malfa chiamava i programmi e le conseguenti misure da adottare per governare. È per questa situazione, e non per un capriccio - torniamo ancora una volta a ricordarlo - che il presidente della Repubblica si è sottratto alle tentazioni pur esistenti in entrambi i partiti maggiori, e anche altrove, per un ricorso anticipato alle urne, nel pieno della crisi economica e della turbolenza finanziaria dei mercati, ed ha nominato un governo tecnico. Dal quale, proprio per questa natura, qualcuno si aspettava forse che facesse finalmente uno strappo alle brutte abitudini e si sottraesse ad una richiesta di incontro con i sindacati successiva alla proclamazione di uno sciopero generale. Ad alimentare questa attesa, evidentemente insana, era stato in fondo l'altro ieri lo stesso presidente del Consiglio Mario Monti rispondendo alle domande dei giornalisti ai margini del vertice europeo al quale aveva appena partecipato a Bruxelles. In particolare, egli aveva detto di essere ben consapevole della impopolarità delle misure adottate domenica scorsa dal Consiglio dei Ministri, e rassegnato a subirne gli inconvenienti. Che gli precludono peraltro qualcosa alla quale egli non ambisce, come la partecipazione alle prossime elezioni politiche alla testa o tra le file di uno dei due, tre e anche più schieramenti che dovessero contendersi il maggior numero dei voti e quindi il governo del Paese nella nuova legislatura. «A noi importava fare un buon servizio. Non dobbiamo presentarci alle elezioni», aveva detto testualmente Monti, avvertendo chi era già alle prese a Roma, in Parlamento e nei dintorni, con trattative proseguite anche ieri sulla manovra, che «non solo non si può toccare il saldo, ma ci sono anche aspetti di strutturalità e di equa ripartizione dei carichi di cui tenere conto». È invece accaduto che, tornato in Italia, Monti ha dato l'impressione di voler fare un po' di concorrenza a Giobbe. E, dismessi i panni del tecnico, con mossa tutta politica ha convocato per questa sera a Palazzo Chigi i sindacati per un incontro che, per quanto "informale" ed esteso lodevolmente al tema della riforma del mercato del lavoro, rimasto fuori della manovra, si svolgerà senza una sospensione preventiva dello sciopero già proclamato, almeno sino al momento in cui scriviamo. Di domenica, quella scorsa, si è svolto l'incontro con i sindacati prima del varo del pacchetto delle misure anti-crisi del governo e di domenica si svolgerà anche questo, in vista delle votazioni di domani in commissione alla Camera per definire il testo delle norme da portare il giorno dopo in aula. E da votare, si spera a quel punto, con il ricorso alla fiducia sia per accelerarne l'approvazione attesa in Europa sia per evitare che la Lega di Umberto Bossi e l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro giochino con la valanga dei loro emendamenti una perversa partita politica. Che mira - diciamolo francamente - non tanto a migliorare le misure, quanto a spaccare i due gruppi maggiori, quelli del Pdl e del Pd, e di insidiare i loro elettorati più ancora di quanto non abbiano già cominciato a fare. Quella che sta per aprirsi o chiudersi, come preferite, prima a Montecitorio e poi a Palazzo Madama, dopo le concessioni al rito concertativo di questa sera con i sindacati, non è una vicenda di poco conto. Nella quale comunque chi ha più da rimettere, in caso di errori, non è il governo ma la politica. E i partiti che la rappresentano. I quali mostrano di non essere ancora pienamente consapevoli del fossato che sono riusciti a creare nei rapporti con l'opinione pubblica. Lo dimostra la loro rivolta, purtroppo appoggiata ieri con la consueta disinvoltura politica dal presidente della Camera in persona, contro il tentativo del governo di inserire nella manovra «inopportunamente» - ha detto Gianfranco Fini - un intervento finalmente correttivo e riduttivo sugli emolumenti dei parlamentari. I quali rivendicano il diritto di decidere su questo da soli, con i loro tempi, in completa «autonomia». Che sarà pure conforme alla prassi, ma ne fa odiosamente dei privilegiati, anche se si offendono a sentirselo dire.

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