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Quando Berlusconi era democristiano

Silvio Berlusconi

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Lo stesso Silvio Berlusconi ha raccontato più volte, non certo vergognandosene, che a nove anni neppure compiuti già militava a modo suo nella Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi e Attilio Piccioni. In particolare, egli partecipò nella sua Milano alle squadre degli attacchini dei manifesti del partito scudocrociato nella più storica e decisiva campagna elettorale della storia della Repubblica italiana: quella che permise alla Dc e ai suoi alleati di centro di sconfiggere il 18 aprile del 1948 il "fronte popolare" formato da comunisti e socialisti. Una sconfitta peraltro che per i socialisti, allora guidati da Pietro Nenni, fu duplice perché essi persero a sinistra anche il vantaggio sul Pci di Palmiro Togliatti conseguito nelle precedenti elezioni per l'Assemblea Costituente e per le amministrazioni locali. E non sarebbero più riusciti a recuperarlo. Di anni, il Cavaliere non ne aveva nove scarsi ma cinquantatre quando mi parlò alla vigilia delle elezioni politiche del 1992, le ultime alle quali la Dc, allora guidata da Arnaldo Forlani, si sarebbe presentata con il suo nome e il suo simbolo. Per quanto fosse notoriamente di simpatie craxiane, da me condivise, ricordo bene quanto Berlusconi tenesse anche ad un buon risultato della Dc. Tanto che - vi confesso - ricavai l'impressione che egli fosse orientato a votare dopo qualche giorno per il Psi alla Camera, giusto per non far mancare a Craxi il suo voto di preferenza, che c'era ancora, ma per lo scudo crociato al Senato. Della Dc non gli piacevano le correnti, soprattutto quella di sinistra capeggiata da Ciriaco De Mita, della quale egli aveva provato sulla sua pelle di editore televisivo una ostilità persino feroce, tutta finalizzata a difendere il più a lungo possibile il pur antistorico monopolio pubblico della Rai, ma apprezzava la capacità di sintesi che quel partito sapeva alla fine sempre esprimere all'insegna della tolleranza. D'altronde, da solo Craxi, per quanto fosse convinto e combattivo, nei suoi anni a Palazzo Chigi e in quelli successivi, senza la collaborazione e l'aiuto della Dc non avrebbe potuto garantire la nascita e la sopravvivenza della Tv commerciale, cioè privata, dagli assalti combinati, già allora, della sinistra comunista e dei magistrati. Ai cui ordini di oscuramento le televisioni di Berlusconi erano state sottratte negli anni Ottanta con due decreti legge disposti dal governo Craxi-Forlani ed emanati senza un attimo di dubbio dall'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini: un socialista che non si faceva certamente dare ordini da Craxi, ma neppure intimidire dai comunisti. Quando il cataclisma giudiziario, mediatico e politico di Tangentopoli travolse il quadro politico, e i suoi equilibri, fu proprio alla Dc, o a quel che ne rimaneva, che Berlusconi si rivolse per scongiurare il pericolo che il Paese finisse nelle mani di un partito comunista arroccato nella sua presunta "diversità". Che era contraddetta da una partecipazione per niente marginale alla pratica del finanziamento illegale della politica e da una continuità di classe dirigente di per sé espressiva della natura strumentale del cambiamento di nome e di simbolo disposto dal Pci sotto le macerie del muro di Berlino, dopo il crollo cioè del comunismo. Fu in particolare a Mario Segni e a Mino Martinazzoli, subentrato a Forlani alla guida della Dc, e destinato a liquidarla, che Berlusconi si rivolse nel 1993 perché organizzassero un cartello elettorale di centrodestra contro la sinistra cosiddetta post-comunista. E fu dopo la risposta negativa di Martinazzoli, peraltro convinto di poter liquidare il problema postogli da Berlusconi offrendogli una candidatura da indipendente al Senato nelle liste democristiane, che il Cavaliere si decise ad organizzare lui il cartello elettorale e politico che poi sconfisse la fintamente «giocosa macchina da guerra» allestita dall'ultimo segretario del Pci, e primo del Pds , Achille Occhetto.   L'elettorato democristiano, al pari di quello socialista e degli altri vecchi partiti di governo spazzati dalle Procure e dalle loro gazzette, non esitò a scegliere Berlusconi nelle urne. Né esitarono a passare nel partito berlusconiano - Forza Italia - i due terzi dei quadri della ormai ex Dc, destinata attraverso le sigle e i nomi del Partito Popolare e della Margherita a confluire nell'ultima versione del Pci chiamata Partito Democratico. Questa storia accomuna in un doveroso rispetto, e in un solo popolo, le vicende di Berlusconi e della Dc. Sì, anche quella della Dc, per quanto ciò possa apparire paradossale o semplicemente scomodo ad altri che si ritengono eredi più legittimi o diretti dello scudo crociato, oggi oppositori o nemici del Cavaliere: da Pier Ferdinando Casini e Rocco Buttiglione, già alleati di Berlusconi, ai Franco Marini, Dario Franceschini, Enrico Letta, Rosy Bindi, Giuseppe Fioroni e altri ex democristiani accasatisi con Massimo D'Alema, Pier Luigi Bersani e compagni.   A compromettere questa storia, e a consentire su un versante che si presume moderato, o di centro destra, la riproposizione di tutta intera la Dc come di un partito dalla memoria dannata, fatto solo di voltagabbana, quasi una galleria infinita di Bruti, plurale di quello che pugnalò Cesare, non possono essere di certo le pur legittime disapprovazioni - per carità - degli ex ministri Claudio Scajola e Giuseppe Pisanu. E di altri provenienti dalla Dc che nel Pdl da qualche tempo soffrono, con o senza apostrofo, per le oggettive difficoltà della maggioranza e del governo. E fanno sognare le opposizioni. Al massimo, con gli Scajola e i Pisanu di oggi, se dovessero veramente far precipitare la situazione verso una cris i di governo, potrebbe allungarsi la Galleria dei Bruti, già affollata di politici di ogni provenienza, o matrice ideologica, ma non potrebbe risorgere la Dc. Né si potrebbe trasformarne il ricordo in ciò che non è stata: una scuola di opportunisti e traditori. Questo non è né vero né giusto. Il primo ad avere il diritto, e il dovere, di sentirsene offeso è proprio Berlusconi, e non solo per quei manifesti elettorali che attaccava, o aiutava ad attaccare, quando aveva i calzoni corti.

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