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Bindi vuole l'Unione cattocomunista

Rosy Bindi

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Da quando il Pd è nato, il giorno che precede la Direzione nazionale del partito è un giorno complicato. I motivi sono sempre gli stessi: beghe interne da nascondere, coalizioni da inventare, leadership da consacrare. Anche stavolta i Dem non deludono. Ad assumersi la responsabilità di allontanare le nuvole della vigilia è Rosy Bindi. La presidente del Pd prova a risolvere il problema alla vecchia maniera. Problema alleati? L'importante è far fuori il Cav e l'ammucchiata è servita: «La questione non è mettere insieme Casini e Vendola - spiega nel dibattito che chiude la tre giorni di Chianciano - ma vedere se riusciamo a ricreare una sintesi tra progressiti riformisti e moderati, perché quando questo è riuscito ha dato i suoi frutti». La "novità", insomma, è il Nuovo Ulivo. La Bindi spera più che altro che siano le difficoltà in cui si trova in questo momento l'avversario a essere determinanti, ma non vuole rischiare. Anche la figuraccia è dietro l'angolo: «Il campo del centrodestra è così devastato che c'è da fare un bagno elettorale e penso che chi ha più sensibilità politica ha capito che bisogna trovare il modo per ritrovare la strada con i progressisti per fare questo». Il primo obiettivo - anche Pier Luigi Bersani lo ha ribadito più volte - rimangono i moderati. I popolari hanno prospettato più volte al segretario il fantasma del '94: vincenti alle Regionali, perdenti alle Politiche con la "gioiosa macchina da guerra" costruita nello stretto perimetro del vecchio centrosinistra (o meglio sinistracentro). Meglio allora rivolgersi all'Udc di Casini, insiste quella parte del partito che non ha ancora digerito la "foto di Vasto" (che ritrae Bersani con Di Pietro e Vendola) e che si è, invece, sentita richiamata dalla sirena delle parole di Bagnasco. Certo Bindi e compagni sono anche consapevoli che per sposarsi bisogna essere in due e dunque attendono con ansia di sapere da Casini quale sarà la sua scelta di campo.   Dall'altro lato - ad aspettare che Bersani - ci sono poi Sel e Idv. Sabato da piazza Navona da Vendola e Di Pietro il Pd è stato un po' blandito un po' strattonato, ma anche il governatore della Puglia, che pure è tornato a chiedere le primarie, parlando dal palco ha usato toni soft verso l'Udc: «Dobbiamo guardare avanti - ha detto - amico e compagno Bersani, amico e compagno Di Pietro, amico Casini, abbiamo bisogno che il cantiere dell'alternativa sia plurale e giovane». C'è poi il nodo della leadership. Vero è che Walter Veltroni ha fatto un passo indietro sulle primarie di partito rinviando, maliziosamente, la palla nel campo della maggioranza di partito, che definisce percorsa da «tensioni». Ma sono in tanti a scalpitare. Tutto dipende da quando si andrà alle elezioni. Per buona parte dei democratici il candidato rimane Bersani, soprattutto se si andasse al voto nel 2012. Più difficile la questione se si votasse nel 2013. A quel punto sarebbero in molti a scaldare i motori. Matteo renzi, innanzitutto, ma nel partito c'è anche chi tira in ballo Nicola Zingaretti o un outsider come Alessandro Profumo. Bersani, in serata a Che tempo che fa, ci scherza su: «Io credo che al 2013 comunque non ci si arriva anche perché, ogni qualvolta Berlusconi e i suoi dicono che rimarranno fino al 2013, lo spread va su. Vorrei che si notasse. Noi siamo comunque disposti a un governo costituito da gente rappresentativa per compiere le riforme», spiega. Quanto alle primarie, Bersani prende tempo: «Dobbiamo prima occuparci di questo oggettino che si chiama Italia - spiega - Non possiamo pensare di scegliere un suonatore senza lo spartito». Ovvero, fuor di metafora bersaniana, è necessario prima buttar giu un programma condiviso e poi individuare un leader. C'è poi un altro punto «sensibile» che rischia di mettere in difficoltà il segretario Pd durante la riunione di oggi: il referendum elettorale. Chi difficilmente in Direzione non farà le pulci a Bersani è Arturo Parisi. La questione tra il segretario e l'ex ministro della Difesa è nota: la firma di Bersani per abolire il porcellum. Parisi la pretendeva. Il leader dem più volte ha spiegato che un partito le riforme le fa in Parlamento e che, comunque, sui referendum non ci ha «messo la faccia ma i banchetti per raccogliere le firme sì». Al di là della disputa sulla paternità del milione di consensi, ora quello su cui si interrogano i dirigenti democratici è appunto l'effetto che questo potrebbe avere sulla durata della legislatura. Nel frattempo ci sarà da decidere se appoggiare o no il referendum, nel caso la Cassazione desse via libera al quesito. Tutti i nodi dei democratici, insomma, oggi verranno al pettine. I sondaggi sulle intenzioni di voto danno la sinistra avanti di dieci punti percentuali. Ma - andando avanti di questo passo - Bersani e compagni avranno modo di perdere il vantaggio accumulato. Basterà proseguire in Direzione ostinata e contraria.

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