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Bossi stoppa le misure sulle pensioni

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Umberto Bossi

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È il protagonista della giornata. I giornalisti seguono ogni sua mossa. Ogni sua parola viene rilanciata con enfasi. Umberto Bossi batte i pugni sul tavolo, si impunta, minaccia. Lo aveva già fatto giovedì definendo «troppo fumoso» l'intervento del ministro dell'Economia Giulio Tremonti a Montecitorio davanti alle commissioni Bilancio e Affari Costituzionale di Camera e Senato. L'impressione è che si tratti della solita strategia. Da tempo il leader della Lega si mostra pubblicamente insoddisfatto dell'azione del governo, urla un po' per poi accordarsi e mostrare al suo popolo che il Carroccio mantiene le promesse ed è in grado di fare gli interessi della «base». Il Senatùr, insomma, vive ormai in un clima da perenne campagna elettorale. Pronto ad ogni evenienza e, proprio per questo, con un occhio fisso all'asticella del consenso e al malessere che comincia a crescere nelle zone del Nord. Dopotutto le ultime performance elettorali non sono state entusiasmanti. A Bologna, dove il leghista Manes Bernardini era considerato un pericoloso outsider addirittura in grado di conquistare la città, il centrosinistra ha vinto al primo turno. E particolarmente cocenti sono state le sconfitte di Gallarate (dove Bossi si è più volte recato per la campagna elettorale) e Novara (città natale del governatore piemontese Roberto Cota). Con un clima così, meglio sfruttare qualsiasi occasione. E una manovra lacrime e sangue è sicuramente un terreno favorevole per tornare a vestire i panni del partito di lotta e lucrare qualche voto. Così il Senatùr si impunta, soprattutto sul capitolo pensioni, costringendo il premier Silvio Berlusconi ad una trattativa ad oltranza. Sono le 15 quando il leader leghista varca il portone di Palazzo Chigi per l'ennesimo faccia a faccia prima del Consiglio dei ministri. «Finché non c'è qualcuno con il pugno più forte del mio, nessuno oserà toccare le pensioni» avverte. E aggiunge: «Prevarrà la linea della saggezza». Rassicurazione confermata telefonicamente anche al numero uno della Cisl Raffaele Bonanni («Stai tranquillo Raffaele faremo la nostra parte. Anche io quando vado in giro incontro tanti lavoratori e pensionati. La loro battaglia è anche la nostra, è una questione che ci sta a cuore»). Alla riunione sono presenti anche i ministri Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi, Roberto Calderoli e Roberto Maroni. C'è anche il titolare dello Sviluppo Economico Paolo Romani che alla fine commenterà: «È stata una lunga riunione, c'era da discutere». La discussione si traduce in un sostanziale accordo. Il capitolo pensioni viene toccato dalla Manovra ma solo con qualche limatura. Dopotutto il vero spauracchio per i lùmbard è rappresentato in primo luogo dal congelamento delle pensioni di anzianità. Nel testo varato dal governo non c'è alcun intervento. A spiegarlo è ancora una volta, alla fine del Consiglio dei ministri, Romani che subito aggiunge: «C'è stata una discussione approfondita ma mai problematica o con risse o altro come ho letto sulle agenzie. C'è stata una discussione ed è stata trovata una buona mediazione. La Lega è soddisfatta». La conferma arriva dal ministro Calderoli: «Stop alle pensioni e duri tagli ai costi della politica. La manovra è dura ma i due punti per i quali la Lega Nord si è battuta sono stati accolti». Resta un po' di irritazione sul numero di Province che andranno tagliate. In ogni caso, come ha spiegato lo stesso Berlusconi, si tratta di un provvedimento «in divenire» è non c'è dubbio che la Lega saprà far valere le proprie ragioni. Nel frattempo, se tra Bossi e il premier sembra andare tutto a gonfie vele, va registrato lo scontro tra i leghisti e il governatore lombardo Roberto Formigoni. Ad «accendere» la miccia è l'esponente del Pdl che, dopo l'incontro in mattinata tra governo e Regioni a Palazzo Chigi, sentenzia: «Con i tagli proposti possiamo dire ufficialmente che il federalismo fiscale è morto». Parole che non piacciono né a Bossi («La raccontano male. Sono cattivi...»), né a Roberto Calderoli: «Mi spiace dissentire profondamente dal giudizio espresso dal presidente Formigoni in relazione al federalismo. Sbaglia completamente». Ma Formigoni insiste: «Il federalismo fiscale è finito. L'impossibilità del ministro leghista di entrare nel merito delle mie affermazioni ne dimostra l'assoluta veridicità».

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