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Una crisi di sistema, non di regime

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Dopo lunga e lodevole resistenza anche il buon Emanuele Macaluso ha ceduto a sinistra alla tentazione di scambiare per "regime" la maggioranza berlusconiana, commentandone sabato le indubbie manifestazioni di crisi. Che alla sua età, e con l'esperienza di dirigente politico vissuta nella ormai lontana e forse troppo bistrattata Prima Repubblica, gli debbono apparire fuori dal mondo. Egli tuttavia ha ammesso, al termine del suo sconsolato e preoccupato ragionamento, da galantuomo com'è, che anche l'opposizione è inadeguata, priva di un programma chiaro e di alleanze ben definite, incapace di andare oltre una rituale e scontata richiesta di dimissioni del presidente del Consiglio. Piuttosto, "si riunisca subito il Parlamento e il governo dica cosa vuol fare", chiedeva ieri il direttore del Riformista. Ma la crisi, se riguarda contemporaneamente sia la maggioranza sia l'opposizione, non è di "regime", bensì di sistema, caro Macaluso. E ciò è ancora più grave per il Paese perché non può tenersene o tirarsene fuori nessuno, neppure chi del sistema è alla testa, e ne difende invece con ostinata fiducia la validità. Sino a condividere quella grande fesseria politica che suole ripetere il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ogni volta che definisce "la più bella del mondo" la Costituzione in vigore in Italia dal 1948. Che fu concepita ed approvata quando si andava non dico a cavallo, ma quasi, visto che ora andiamo in internet. In un mercato vertiginosamente globalizzato, in cui basta peraltro lo starnuto di una qualsiasi delle agenzie internazionali di rating per seminare il panico e scatenare la speculazione finanziaria, ai governi resta solo la possibilità di difendersi con decisioni chiare e di rapida applicazione. Che sono però impedite o boicottate nel nostro Paese da regole costituzionali ormai arcaiche, all'ombra delle quali è più facile restare fermi, anche su una sola gamba, che muoversi. È stata sufficiente, per esempio, l'intenzione annunciata dal governo di accelerare il percorso della manovra finanziaria appena varata ricorrendo al voto di fiducia nelle aule parlamentari, ma dopo averne discusso e augurabilmente migliorato i contenuti nelle competenti commissioni, perché si gridasse dalle opposizioni allo scandalo. Da cui le agenzie di rating hanno dedotto, viste anche le turbolenze interne a tutti gli schieramenti, il diritto di dubitare della credibilità e delle certezza delle misure varate, pur con le procedure dell'urgenza. Non stupisce perciò l'ultimo venerdì nero delle borse, cui altri potranno ancora seguire, specie se la manovra affonderà nelle sabbie mobili del nostro regime -esso sì- di bicameralismo "perfetto", come dicono i tecnici sfidando inconsapevolmente il ridicolo. Fa parte della crisi del sistema naturalmente anche l'esondazione giudiziaria, con inchieste e processi che dannatamente si sovrappongono e mescolano da troppi anni ormai con i passaggi più delicati e decisivi della politica. Sarò troppo malizioso, della famosa scuola andreottiana di chi indovina pensando male e facendo quindi peccato, ma non credo né casuale né ordinario che il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, sì proprio lui, il "superministro", come viene chiamato anche dalla stampa specializzata, finisca in qualche modo nel tritacarne di un'inchiesta giudiziaria mentre prepara, vara e gestisce una manovra finanziaria. Lo dico a prescindere naturalmente dal giudizio doverosamente politico e umano che meritano il suo carattere, le sue amicizie, i suoi collaboratori e anche le sue ambizioni, aperte o coperte che siano. Cerchiamo di dirci le cose come stanno, senza infingimenti e ipocrisie. Se a colpire Tremonti è stata solo una coincidenza, è di quelle veramente diaboliche, i cui numeri andrebbero giocati al lotto, preferibilmente sulla ruota di Napoli, dove questa vicenda giudiziaria è nata. Di un altro ministro, quello dell'Agricoltura, Saverio Romano, di nomina relativamente fresca, è stata appena annunciata la "imputazione coatta" disposta per mafia e dintorni da un giudice delle indagini preliminari a Palermo: coatta perché difforme dalla richiesta di archiviazione avanzata dopo lungo lavoro da un pubblico ministero che pure passa, come osservava l'altro ieri il Corriere della Sera, per "uno dei più tosti" della Procura palermitana. C'è chi ha reagito alla notizia prendendosela con il presidente del Consiglio, colpevole di avere imprudentemente reclamato e ottenuto dal capo dello Stato la nomina di questo ministro in pendenza di giudizio, fidandosi della "sola" richiesta di archiviazione formulata dall'accusa. Nessuno ha ritenuto invece di spendere una parola sull'imbarazzo alquanto improprio creato al giudice dal capo dello Stato, nonché presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, quando ritenne di dissentire dalla nomina del ministro tanto pubblicamente quanto clamorosamente, di fatto delegittimandolo. Fra l'archiviazione chiesta dall'accusa e i dubbi espressi a suo modo dal presidente della Repubblica, quel giudice ha finito per privilegiare i secondi. Tutto è avvenuto nel quadro pirandelliano di uno stesso, discutibilissimo e stranissimo sistema.

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