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Collegialità salva-ministro

Giulio Tremonti in aula della Camera dei Deputati

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«Collegialità»: è questo il nuovo mantra trovato ieri dalla maggioranza per chiudere il caso Tremonti. Il ministro dell'Economia, dunque, si è impegnato ad essere più «collegiale» con i colleghi di governo, di partito e di maggioranza. Quanto ai contenuti della manovra, restano i soliti, sia sui tagli alla spesa sia sulle tasse. Silvio Berlusconi si è dichiarato «molto soddisfatto» per il clima di «coesione ed unità». Ed ora l'obiettivo – riferiscono i soliti informati dei fatti – è di «trasmettere all'esterno tutta questa coesione». Vabbè, mettiamola così: la maggioranza, con qualche vistoso malumore della Lega e anche nel Pdl, mette per ora il problema sotto il tappeto. Uno showdown del resto non converrebbe né al Cavaliere né al ministro: entrambi ne uscirebbero male, anzi malissimo, perché l'aria che tira in caso di elezioni anticipate è di una sinistra che stavolta non ha precisamente l'intenzione di fare prigionieri. Ma non sfugge a nessuno che collegialità è un metodo, non il merito. E' una modalità di lavoro, non “il lavoro”. Tremonti lascia al governo ed alla maggioranza la facoltà di scegliere le singole misure da adottare, all'interno del menù predisposto e messo in tavola da lui. E quindi l'entità della manovra sui conti pubblici resta confermata a 43 miliardi, di cui due quest'anno, da reperire in una gamma che va dall'innalzamento delle pensioni a tagli e congelamenti di stipendi e pensioni cosiddetti d'oro. Per avere il buffet definitivo bisognerà attendere le successive riunioni ed il consiglio dei ministri di giovedì. Fino ad allora nulla è scontato. Stessa cosa per la riforma fiscale. E qui attenti ai dettagli: Franco Frattini, ministro degli Esteri, ha detto: “Non ci sarà una riduzione ma una rimodulazione della tasse”. Traduzione: la pressione fiscale, che viaggia ormai intorno al 45 per cento del Pil, cioè ai livelli top europei, non scenderà. Tutto come previsto: l'Iva, l'aumento dell'imposta sui risparmi, magari qualche tributo “di servizio” (però federalista), compenseranno l'Irpef. Anche in questo caso ciò che Tremonti ha collegialmente concesso è di decidere assieme dove e come spostare, rimodulare. Prima di ripetere tutti i nostri dubbi di fronte a questo modo di agire, è giusto ricordare il sentiero strettissimo lungo il quale il governo, Tremonti, Berlusconi ed il Paese si stanno muovendo. Dall'asta di titoli pubblici di ieri è arrivata una ennesima doccia fredda per il nostro debito pubblico. I Btp sono stati piazzati ad un rendimento salito, sui decennali, al 4,94 per cento rispetto al 4,73 del 30 maggio: siamo ai livelli di ottobre 2008, però con l'economia incerottata dalla crisi ed una disoccupazione due punti sopra. Perfino la domanda dei titoli, che era sempre stata vivace, è in calo: il rapporto con l'offerta è stato di 1,3 volte, rispetto ad 1,5. Infatti è stato collocato un ammontare complessivo di 7,9 miliardi rispetto agli otto programmati dal Tesoro. La pressione dei mercati e la speculazione continuano dunque a mordere. Ed è quanto paventa il governo e Tremonti in particolare. Questo però non significa che non ci siano alternative rispetto alle manovre in preparazione. La Corte dei Conti, nella relazione sul rendiconto generale dello Stato, ha elogiato la politica del rigore e delle entrate, ma ha anche detto chiaramente due cose: il peso delle tasse sui redditi delle persone deve diminuire; ed i tagli devono essere d'ora in poi mirati, e non più lineari. A fine maggio lo stesso invito era giunto in toni pressanti da Mario Draghi nelle sue ultime Considerazioni finali da Governatore di Bankitalia. Economisti di area liberale come Antonio Martino – ieri sulle colonne del Tempo – e Mario Baldassarri continuano a dimostrare che un diverso modo di impostare la finanza pubblica è possibile. Martino ha proposto una cosa saggia: tornare a separare il ministero dell'Economia tra Finanze e Tesoro, fra entrate ed uscite. Due funzioni incompatibili tra loro. Proprio perché saggia, siamo abbastanza certi che la proposta non verrà accolta. Baldassarri afferma, dati alla mano, che ciò su cui Tremonti interviene sono i costi di competenza previsti di anno in anno per le singole amministrazioni – passandoci sopra la sua famosa pialla – riducendo, poniamo a 50 (o a zero) ciò che dovrebbe essere 100. Ma non elimina in modo permanente nessun centro di spesa. Si limita, è l'opinione di Baldassarri, a somministrare ai conti dello Stato un potente narcotico, non ad estirpare il virus. E' così? La sua teoria, che trova riscontro nelle prediche di Draghi e della Banca d'Italia, meriterebbe quanto meno di essere messe alla prova. E andrebbe fatto soprattutto ora, con la crisi greca che fornisce non un alibi, ma una più che ampia giustificazione ad un diverso, e per l'Italia rivoluzionario, modo di agire. Ieri è emersa una “spending review” che la Ragioneria dello Stato efettuerà in futuro sui singoli centro di spesa; in base pero, ancora, su costi standard. Ma se un ufficio non serve non gli si toglie la carta per le fotocopie, si elimina l'ufficio. Se non serve un ponte non si bloccano fondi e si rinviano i lavori alla calende greche, si cancella il progetto. La carta, i fondi – ridotti – si dirottano a favore di cose più utili e meno costose, su cui certamente non mancano studi e opinioni documentate. Abbiamo per esempio la Cassa depositi e prestiti, uno strumento ricco, potente, efficiente, gestito in maniera privatistica: perché deve occuparsi della Parmalat e non di infrastrutture, hi-tech e ricerca? Nei giorni scorsi ci siamo permessi di indicare dove secondo noi si potrebbe tagliare in uno Stato che è tornato a rappresentare oltre il 50 per cento dell'economia italiana. Abbiamo additato in primo luogo le province, che non sono un chiodo fisso ma semplicemente la possibile traduzione italiana di quello che Margaret Thatcher definì per l'Inghilterra la cura del “no-nonsense”: tutto ciò che è inutile o superfluo va cancellato. I tagli thatcheriani furono dolorosi, all'inizio impopolari, materia di film. Ma trasformarono un paese bloccato più dell'Italia, con una burocrazia e una classe politica peggiore della nostra, in un modello di modernità per il mondo. I suoi benefici si sono trasmessi dai Tory al New Labour di Tony Blair, ed oggi nuovamente ai conservatori di David Cameron. Il quale, con i suoi tagli davvero verticali, ha stupito il mondo: l'ex impero britannico, che aveva fondato sul mare la sua antica potenza, ha rinunciato alle portaerei. Ma non alla ricerca. In compenso ha chiesto alle università rette più alte senza alcun tabù verso i privati: eppure Londra resta ancora il polo di attrazione europea, ed un mercato, per i giovani cervelli. Ha proclamato la fine del multiculturalismo, dando una potente picconata al costosissimo sistema di welfare dell'Inghilterra. E' un esempio; ce ne sono altri dalla Germania all'Australia. Per ora dobbiamo prendere atto della collegialità. E accontentarci.

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